Manuzio.org
T.O.C.
Foreword
Amayadori
Alicudi
Un anno dopo il grande terremoto di Hokkaido
La mia NDE - Alcuni anni dopo
When the (artistic) going gets tough, the (tough) artist would like to escape forward.
Il disturbo della sovrabbondanza
Uccellino - Imperatori - Uccellino
Il sabato del villaggio (giapponese)
Le "E" tra pace e guerra
L'antagonista protagonismo dell'invisibile
Sempre ora.
Il Re del 2020
Zainal Muttaqien
Icone semplici per meccanismi complessi
La Bestia
Author
Alessandro Wm Mavilio
Ezo
Scritti in Hokkaido
Colophon
Alessandro Wm Mavilio
Ezo
Scritti in Hokkaido
#2019-NXRCZE
Un libro Manuzio.org è una sorta di moderno menabò online che non ha ancora un titolo o un contenuto determinato.
L’autore si riserva ancora il diritto di aggiungere, modificare, eliminare intere parti del testo prima di giungere a una conclusione dei lavori generalmente soddisfacente.
Tuttavia, il contenuto di questa pubblicazione è reso preventivamente disponibile al pubblico in quella che può ricordare la forma di un blog.
Potrà capitare al lettore di imbattersi in errori di vario tipo, principalmente dovuti al fatto che la prima stesura dei capitoli può avvenire in condizioni non sempre ideali alla scrittura, ma ogni sforzo sarà fatto per costantemente rivedere ciascun capitolo e portarlo alla forma più perfetta.
Questo libro può essere letto a schermo sul Web, stampato su carta oppure salvato in PDF.
Prima edizione digitale: 2019
© 2004 - 2023 - 2024
sdn.link Sapporo Japan
Table Of Contents
Foreword
Amayadori
Alicudi
Un anno dopo il grande terremoto di Hokkaido
La mia NDE - Alcuni anni dopo
When the (artistic) going gets tough, the (tough) artist would like to escape forward.
Il disturbo della sovrabbondanza
Uccellino - Imperatori - Uccellino
Il sabato del villaggio (giapponese)
Le "E" tra pace e guerra
L'antagonista protagonismo dell'invisibile
Sempre ora.
Il Re del 2020
Zainal Muttaqien
Icone semplici per meccanismi complessi
La Bestia
Author
Foreword
Se dovessi dire quale sia il mio lato più femminile direi che è nel richiedere attenzione.
In quanto scrittore desidero essere letto con concentrazione, forse non da tutti, non da molti, ma chi desidera leggere le mie pagine deve poterlo fare con i migliori crismi. Le mie parole non devono giungere tra la confusione, mischiate ad altri messaggi: è importante che le mie parole siano lette come se i miei lettori e io fossimo nella stessa stanza, o nello stesso scompartimento di un treno, o sotto le stesse coperte se ciò fosse necessario. Era così quando insegnavo ed è così quando converso con qualcuno.
Questo volume inaugura un'ulteriore strategia interna ai miei "microlibri". Pensieri, storie, report, conversazioni, idee per trasmissioni audio o per cortometraggi, conversazioni abbozzate, saranno innanzitutto pubblicate qui, testualmente.
L'idea non è particolarmente originale e ce l'ho in mente dagli anni Novanta. La chiamavo "Menablog", un gioco di parole tra il menabò di un libro e il blog, punto di incontro tra la procrastinazione professionale del tipografo e l'immediatezza del poter postare virtualmente. La messa in opera di un menablog richiede comunque del coraggio. Se negli anni novanta sognavo di far partecipare i "lettori alpha" di un titolo alla costruzione tipografica del libro oggi, semplificando, il mio concetto di menablog è nel pubblicare i post di un blog, nella forma di libro, ogni qual volta si raggiunge il numero indicativo di dieci capitoli o un decente numero di pagine, se il libro fosse stampato in formato A5.
Con i microlibri i miei (pochi) lettori avranno l'agio di seguirmi utilizzando il decennale, secolare, modulo libresco, che in certi frangenti potrà delicatamente allargarsi al modulo editoriale della rivista. Alcuni argomenti e alcuni testi potranno infatti risultare come se fossero pubblicati a puntate. Ma ciò mi va ancora bene se la relazione tra autore, testo e lettore resta salda e sana. Il mio lettore, deve potermi leggere nel recinto di attenzione che un libro sa generare e assicurare. Essere letti tra mille altre storie, su pagine confuse e pezzate, non può interessare nessun vero scrittore.
E' probabile che con questi microlibri si generi una vera e propria collana personale di testi, certamente molto eterogenei, ma coerenti, e almeno per me di enorme valore storico e strategico. Sarò felice di non perdere più pezzi per strada. Produrre e pubblicare su diverse piattaforme, e conseguentemente perdere il controllo e il ricordo di ciò che è stato pubblicato, è stata per me una lunga dannazione, non troppo diversa da un morbo di Alzheimer, sebbene applicato alle mie creazioni.
La velocità con la quale oggi tutti consumiamo contenuti e il rumore di fondo che contraddistingue le piazze virtuali di più facile smercio mi ha portato a una profonda riflessione e alla decisione di rivedere i moduli storici di successo della espressione artistica oggi disponibili.
E' sempre facile lasciarsi trasportare dalla bellezza e dal senso di onnipotenza che donano la fantasia, la tipografia, la grafica, i colori, l'atto semplice della compilazione, della pubblicazione e della virtualizzazione / smaterializzazione di un lavoro... Ma ciascun modulo, potentissimo, se abusato - e ciò può accadere facilmente considerata la facilità d'uso di alcuni software - rischia di invalidare il genio e gli sforzi creativi più semplici e sinceri di un autore. I margini del gusto e della regola d'arte si sono fatti sottilissimi.
Ho da tempo rinunciato al sogno di diventare un regista cinematografico. Quella industria non esiste più da molti anni e a ben ricordare fu già dichiarata morta dai maestri del XX secolo. Ciò che vi sembra sopravvivere oggi - fidatevi - è altro. E ho capito che lo stesso è accaduto all'industria dei libri. Forse non potrò affermare che l'industria del libro sia finita, ma certamente non è la stessa dei secoli scorsi, essa è come slabbrata, di certo strutturalmente cambiata.
Pur con tutta la buona volontà mi sarebbe troppo difficile diventare uno scrittore nel senso più classico e romantico del termine. E neanche mi va di diventare un autore che scalcia, che paga per pubblicare o che deve scendere a compromessi troppo... interiori.
La frammentazione / modernizzazione delle varie industrie dell'espressione umana, alla quale temo di aver partecipato anche io stesso (nella foga di utilizzare e diffondere le nuove tecnologie che hanno raggiunto anche me a partire dagli anni Novanta) rende oggi molto difficile agli autori collocarsi in una posizione stabilmente creativa. Le regole di ingaggio con l'industria e l'uditorio cambiano repentinamente, imponendo spesso non solo un cambio di stile ma anche rivoluzioni sempre più frequenti delle procedure creative.
Oggigiorno il rapporto con la propria arte e con i propri estimatori non è più tradizionalmente artigianale o industriale, inscrivibile in una relazione quasi autoritaria (e comoda) di uno a molti, bensì è tutto diventato molto liquido e "sociale", quasi addirittura familiare. Tutti siamo amici o conoscenti, artisti e creativi (e molti lo sono inconsapevolmente e sono anche molto bravi) e tutti in un certo senso ci consumiamo a vicenda.
Finché una tale fase durerà - e giacché nel mio caso esprimermi pubblicamente è un vezzo che coltivo dall'infanzia e che non nasce con l'ubriacatura da Internet - ho deciso di rivedere tutti i moduli espressivi del passato glorioso e ridefinire una metodologia autarchica e forse anche naif, più adatta al particolare momento storico, e che quantomeno mi aiuti a non perdere più per la strada i miei prodotti, l'ispirazione e la più semplice gioia di esprimermi.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Amayadori
Pioveva da giorni ma quella sera veniva giù come Dio comanda.
Sai quella sensazione di insopportabile sospensione che si crea quando dopo aver mangiato gyoza e bevuto vino rosso, dalla strada odorosa e rumorosa, per la prima volta - e magari dopo mesi o anni di reciproco annusarsi - due persone si ritrovano a varcare la soglia di un love hotel, o di una pensione qualunque? E' quella stessa incomunicabile condizione sospesa che c'è tra una inspirazione e una espirazione, quella pausa, quel nulla che prelude a una piccola rivoluzione.
Sono insieme in questo alberghetto, niente di eccezionale.
Ci sono entrati come due teatranti che escono dalle scene della società, che scompaiono da un luogo per essere altro in un altro. La prima cosa sarà sganciare le maschere e sfiorarsi in ascensore, se ve ne è una, e togliersi le scarpe appena possibile. Poi i due guarderanno alla stanza come se da lì in poi dovessero abitarci per un tempo imprecisato. Lei si farà una doccia abbastanza veloce. Lui se è fumatore fumerà.
Indossano poi entrambi lo yukata che è come sempre una liberazione e una costrizione, un premio e una pena.
E' poi quell'attimo, in cui dal taglio dello yukata lei espone il bianco candido dell'interno coscia nudo! E dopo poco, quanto basta all'amore per stordire il tempo, ecco che madidi di sudore stanno fumando insieme, senza troppo respiro. L'atto è compiuto. Lei è piena di lui e lui è vuoto di lei. Gocciolano entrambi.
- Non sapevo che fumassi - le dice.
- Uhu. In ditta fumo di nascosto, nel cucinino del quindicesimo piano. E se sono particolarmente nervosa anche a casa, ma in veranda. Ma quella stronza della vicina se ne è lamentata con l'amministratore.
Il giorno dopo si incontrano, come due calamite. Ma non sono in ditta: per lavoro si trovano su un cantiere, al quinto piano di una struttura in costruzione, molto più alta, che è ancora solo di acciaio, scheletrica. E' ormai sera. Lei è in tailleur grigio e lui nel solito completo da combattimento. Hanno sovrainteso ad alcune faccende relative alla costruzione dell'edificio e appena è stato possibile, a fine giornata, si sono isolati per parlare - prima di incappare nel rituale automatico del rientro alle rispettive case.
Ancora una volta quella sensazione di istantanea cecità del respiro. Il mantice delle cose sta invertendo direzione e prelude ad altro, e infatti non c'è nulla nell'aria, o sulla pelle, o nei loro aliti, di simile al giorno prima. Niente gyoza, niente vino, non altro nell'aria o sulle pelli.
Lei gli parla del loro rapporto da ora in poi, e lo fa in modo diretto, un po' gelido, di chi sembra aver calcolato tutto dall'inizio, anche il filo di piombo del taglio dello yukata. Lui si ritrova spiazzato, nessun discorso è ancora stato fatto e già è bestia in trappola. E dal silenzio ringhioso e lupegno, dopo alcuni minuti di un discorso odioso per entrambi, concitato, e con anche troppa autocensura, lui alza il tono della voce per imporre l'unica cosa che possiede davvero, la supremazia fisica. E la esprime in termini di fiato, di esplosività del parlato. Le sue labbra maschili esplodono infatti piccole gocce di saliva che volano tutt'intorno.
Lei reagisce con un sussulto. Nel giro di istanti inapprezzabili si guarda intorno per assicurarsi che nessuno li abbia visti lì, si spaventa della reazione di lui, che reputa un po' scimmiesca, e porta il collo pochi centimetri indietro, e così facendo alza anche il mento, seppur di pochissimo. Si pente di averlo seguito nell'albergo la sera prima, si pente di essersi data, poi si convince che no! è stata la cosa giusta e naturale. Lei lo voleva tutto. E in questi attimi in cui la velocità del pensiero umano straccia ogni possibile concetto di un tempo che scorra, il tacco destro di lei trova il vuoto sotto di sé.
Lei esplode le braccia, le spalanca in un attimo, e le sue palpebre disegnano profili di puro orrore. Cade all'indietro, nel vuoto. Anche lui, in una espressione che da rabbia anche è cambiata in eguale e puro orrore fa per afferrarla e riesce a malapena ad agganciare con l'indice la stoffa della manica della giacca di lei, nella parte poco vicino ai bottoni. Ancora una volta è un istante di intensa materialità. Il suo dito recepisce tutta la profondità della trama di quel tessuto. Una quantità di informazioni tattili assurdamente inutile per ciò che sta cercando di fare: salvare quella donna da una rovinosa caduta. Il dito crea una specie di vortice nel tessuto, sembra quasi avere la capacità di una ventosa, ma è solo la fantasia di un altro instante inapprezzabile. Il corpo di lei continua a disegnare nello spazio forme impensabili per un essere umano, alcune oscene, tanto sono innaturali; altre sembrano le forme più aggraziate e concepibili di una danza occulta e irripetibile.
Lei è totalmente nel vuoto, ora. E lentamente comincia a cadere dabbasso. Cade dal quinto piano, e tutti i respiri sono ora sospesi. Tutto è privo di ogni alimentazione. Lui osserva le pose grafiche di quel corpo che combatte la mancanza di ogni sostegno. Per un attimo la gonna del tailleur gli mostra nuovamente quel bianco candido dell'interno coscia di lei.
E poi il tonfo sordo, giù sul cemento del piano fondamentale.
Poche ore dopo, in un delirio di totale silenzio lui è in un boschetto delle campagne attorno Sakura che la sta seppellendo. Ha gli occhi sgranati, da pazzo, finemente inchiostrati.
Io mi risveglio da questo incubo. Il mondo compresso in sole quattro pagine di un manga sconosciuto mi ha sfiancato. Chiudo il volume e lo ripongo di scatto nello scaffale da cui l'ho sfilato, alle mie spalle.
Ero per strada, il sole era caldo e il vento fresco. Sono entrato in un vecchio kissaten per bere un caffè freddo e buttare giù qualche appunto di lavoro e invece sono caduto in una voragine narrativa.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Alicudi
Nell’estate del 1990 mio fratello e io avevamo lavorato in coppia consegnando dentiere e apparecchi dentali per tutta la città. Io avevo girato con buste di plastica della spesa piene di denti finti, mandibole di gesso, qualche attrezzo… Una volta fui mandato a via Toledo a comprare urgentemente dieci litri di acido fluoridrico. Il commerciante mi chiese se desideravo che un garzone mi portasse il boccione fino al furgone. Io risposi che ero a piedi e sarei risalito con la funicolare. Mi guardò con pena; silenzioso e irritato mi mise questo pesantissimo boccione in braccio e mi disse: - Guaglio’, se ti dovesse cadere… scappa il più lontano possibile. Hai capito? Non restare a guardare quello che succede. Hai inteso? - E così risalii al Vomero con il mio carico speciale ma con un unico vero pensiero. La vacanza. Mio fratello aveva organizzato una vacanza con i suoi amici e mi aveva chiesto se avessi voluto andare anche io. Certo che sì! Saremmo andati alle isole Eolie, sarebbe stata una bellissima vacanza di mare. Dovevamo pur premiarci: mezza Napoli in autunno avrebbe masticato grazie a noi.
- Sai perché si chiamano Eolie? – mi chiese mio fratello.
- No… - risposi.
- “Eolo”. Non ti dice niente?
- Ah, sì!
Nella Napoli deserta di quegli anni, quando “vacanza” voleva davvero significare il vuoto delle strade andai a piazza Municipio per comprare il mio biglietto della nave e poi alla Duchesca per comprare un sacco a pelo; quest’ultimo pagato solo duemila lire, un affare. Saremmo partiti dopo qualche giorno, non ero nella pelle. Lui si recò per pochi giorni a casa di altri amici per un’ulteriore breve vacanza di mare più locale. Restammo d’accordo che ci saremmo trovati al porto di Napoli per la partenza. Anche i suoi amici sarebbero stati già lì e tutti saremmo partiti. “Non portare troppa roba”, mi disse; “perché non usi lo zaino di quando papà era militare? Hai comprato il sacco a pelo?”. Era il mio primo viaggio in assoluto, senza la famiglia. Tutto stavolta era affidato a noi soli, il mangiare, il dormire, la sicurezza. Era la prima estate dopo la morte di nostra madre e tutto nella vita aveva assunto un’aria di grigia insufficienza. Io vivevo nella inespressa speranza di qualcosa.
La sera della partenza ero al porto. Riconobbi il gruppo di amici che si era riunito e mi unii a loro. Erano tutti molto più grandi di me. Fecero per imbarcarsi ma mio fratello ancora non si vedeva. Quando lo feci notare mi dissero che forse era già sulla nave e che comunque ci voleva ancora un po’ prima della partenza, ci avrebbe raggiunti a bordo. Esplorammo un po’ il ponte della nave, lì avremmo dormito. I più avvezzi avevano già occupato le nicchie più riparate. Io non sapevo niente di gas di scarico e dell’insistenza del vento. La nave salpò e di mio fratello nessuna traccia. Partire in nave da Napoli è un’esperienza che richiede polso. Dalla poppa, la vista del porto, poi del Vomero e della Certosa di San Martino, poi del golfo intero, di tutto quel presepe che all’imbrunire rimpicciolisce ineluttabilmente sembrò condurmi a un passo dalla pazzia, era come uno strappo lentissimo e doloroso, struggente bellezza di indicibile sofferenza. Ero anche furioso con mio fratello e impaurito da quel primo imponente distacco dei miei primi quindici anni. Gli amici mi tranquillizzarono, forse ci avrebbe raggiunti qualche giorno dopo. Napoli era ormai scomparsa, gli sguardi volgevano a prua. Seduti in cerchio, facemmo tutti conoscenza. Gianni e Rosa (fratelli), Annalisa (che stava con Gianni), Grazia con un’altra amica, un altro Gianni e io. Quando chiesi come avevano conosciuto Stefano, mio fratello, mi risposero: - Chi?
Solo uno di loro lo conosceva. Era l’altro Gianni, Giovambattista, un ragazzo agitato, esplosivo e molto intelligente, si diceva il discendente del Monsignor Giovanni Battista Alfano, il famoso vulcanologo. Mi colpiva di Gianni la sua evidente classe, e tuttavia il divertimento di vivere Napoli e la napoletanità nel modo tipico degli stranieri che la visitano a lungo. Parlava molto bene il napoletano ma era ovvio che fosse per lui come una seconda lingua, studiata con attenzione e praticata con genio. Gianni era un’esponente storico della gioventù alternativa della città, ridotto male nel vestiario ma decisamente di buona famiglia, intellettuale, artistoide e libero. Per tirarmi un po’ su disse, ritmicamente:
- Va bbuo’, mo’ nun ce penza’ cchiù. Stamm’ ‘ccà! Appicciate ‘na sigaretta.
- Ma io non fumo…
Dopo alcune ore tutti aprirono i sacchi a pelo con evidente scioltezza. Feci lo stesso ma il mio sacco a pelo si strappò completamente non appena vi infilai le gambe. Eccolo, l’affare alla Duchesca, pensai… Gianni rise sonoramente e disse a tutti che mi avevano venduto ‘na felinia, una ragnatela. Lo usai comunque, come fosse una mappata di stracci sintetici. Sempre meglio di niente.
All’aurora eravamo sotto Stromboli. La fornace nella notte. Che spettacolo…
A Panarea venne una barca a remi sotto bordo a prendere i pochi turisti destinati a lei.
Poi attraccammo a Filicudi e Gianni mi disse, gravemente: - È l’isola dei lebbrosi.
E infine comparve Alicudi. Lo scoglio brullo. Per quel po’ che la nave l’aveva lambita, l’isola non aveva presentato zone d’ombra e il sole era già alto. Il nostro gruppo sbarcò. Fu anche sbarcata una vecchia automobile, quasi d’epoca, nell’ilarità dei marittimi che continuavano a dire al proprietario che l’isola non aveva strade ma che… contento lui. La prima notte dormimmo tutti insieme a due passi dal molo, in una stanza affittata non molto diversa da una stalla. Mi svegliai prima di tutti perché sentii urlare. Spiai tra le assi di legno della porta e vidi aldilà della mulattiera una giovane isolana che veniva frustata dentro un pollaio. Non potevo credere che accadesse a un passo da me. Il padrone le urlava insistentemente “puttana ‘mmaculata”. Ciò avveniva a un metro da noi, ed ebbi la netta sensazione che quella donne stesse subendo una punizione proprio a causa nostra. E infatti fummo subito messi fuori casa: niente sconcerie, ci fu detto. Forse il padrone era disturbato da un gruppo promiscuo di giovani che dormissero tutti insieme. Altre sistemazioni non ce n’erano sull’isola. Si era pensato di occupare la casa vuota di un tedesco, ma era molto in cima all’isola e troppo lontana dal mare. Il gruppo si spostò definitivamente su una spiaggia un po’ nascosta. Ci saremmo accampati lì e sarebbe cominciata l’avventura.
Alicudi ci presentò presto il conto, salatissimo in tutti i sensi. Non c’era ombra, non c’era acqua potabile né acqua corrente, non c’era elettricità, non c’era gas. La civiltà era solo una promessa, smembrata e rimembrata nella mente. Alle undici del mattino apriva per poco tempo il minuscolo emporio di Ettore, giù al molo, dove si poteva comprare qualcosa.
Alicuri è ovunque sterile ed alpestre,
e non ha di circuito più di 7 miglia.
Vi nasce in gran copia l'erica.
Mariano Scasso, Storia generale di Sicilia, 1788.
Esaurite le prime scorte di cibo degli zaini, mangiavamo e ci muovevamo il meno possibile, specialmente durante il giorno. Al sale sulla pelle si aggiungeva il sale di successive irresistibili immersioni. Si andava al bagno dove si poteva. Si parlava pochissimo perché ci si comprendeva pochissimo. Nel giro di pochi giorni eravamo tutti ridotti ad automi biologici: corpi interessati esclusivamente dalla loro lenta dissoluzione. Ma dopo poco avremmo lasciato l’isola per provarne un’altra. Finché il mare non si ingrossò e le navi, già rare, smisero di frequentare Alicudi. Fummo costretti a un’altra settimana di vita selvaggia, una settimana che sembrò infinita. Anche l’emporio chiuse perché non riceveva più i rifornimenti da Lipari. Non pensavo più a mio fratello, ero invece contento che si stesse risparmiando questa incomprensibile esperienza. Io alla fine me la stavo cavando.
Gianni il fratello di Rosa, ragazzo bellissimo e fine, fotografo provetto che spesso parlava della sua vita a Londra, finì di leggere un libro e mi chiese se per caso non andasse anche a me di leggerlo. Lo accettai per cortesia, ero intontito e non avevo molta voglia di leggere. Mi sentivo già in una dimensione irreale, quanto oltre potevamo andare fuori di corpo e di testa? Ma lo accettai e lo tenni per un secondo momento. Poi un giorno cominciai a leggerlo e ne fui rapito. Era Confessioni di una maschera, di Yukio Mishima. Mai lettura fu “travaso più endovenoso ed effettivo” di quella. La distorsione causata da Alicudi era speculare alla distorsione che mi offriva il libro: parole da una differente epoca, una differente civiltà, una differente sessualità. Ancora una volta proprio il Giappone mi aveva raggiunto. Qualcosa si risvegliò in me, avrei voluto dire a tutti che a Napoli avevo un libro di giapponese e che in corpo avevo un mare di sillabe, che sapevo perfino dire qualcosa. Ma Alicudi aveva accuratamente sfilato via quella dimensione aggiuntiva della cultura come fosse una veste troppo vezzosa: qui i Paesi del mondo erano gli elementi. Parlavano, urlavano, picchiavano e questa lingua si parlava col corpo seminudo.
Prigionieri di Alicudi cominciammo tutti una dieta a base di capperi e fichi d’india. Eravamo tutti pieni di spine e quelle più invisibili e dolorose si sopportavano, sperando che non facessero infezione. Dopo il pasto, a turno e con la pinzetta di una delle ragazze, ci si toglieva le spine da lingua e gengive. E l’uno lo faceva all’altro. Resisteva una civiltà minima di mutuo soccorso che si occupava di un unico, anomalo, anello della catena: il dolore dell’alimentazione. Quanto dovevamo essere buffi e dolci se guardati dall’alto. Scimmiette.
La notte ad Alicudi era il nostro giorno. Il fresco ci rianimava e per certi versi la notte era luminosa quanto il giorno. Isolati su uno scoglio del basso Tirreno senza elettricità, il cielo di notte era chiaro e profondo, come non lo avrei mai più visto in vita mia. Era più il bianco delle stelle che il nero dell’abisso. La Via Lattea esisteva davvero ed era abbagliante e colorata… Perfino i percorsi sulle mulattiere erano agilissimi: il buio era una chiara certezza; di notte il pianeta stesso mi sembrava un’isola nel cosmo. Non era forse un mare quello che era in cielo? Poi d’improvviso, tutti stesi sulla spiaggia, una ragazza del gruppo ci chiede se anche noi non vedessimo qualcosa di strano in cielo. E sì. A ben vedere, prima uno e poi altri, il cosmo profondo era pieno di oggetti animati, non pulviscolo, non insetti, non aerei, non satelliti, non meteore… Uno, due, molti oggetti lontanissimi che navigavano la volta del cielo… Si spostavano fluidi e filanti ma poi si fermavano. Dopo una pausa tremolante sfilavano ancora via verso un diverso punto dello spazio, per poi ancora tremolare e magari scomparire dietro un orizzonte. Dopo qualche minuto di teorie, calò un rispettoso silenzio e non se ne parlò più, ogni notte avremmo visto quegli oggetti accettandoli come tutto il resto sconosciuto del cielo.
Una notte feci una passeggiata al molo, come per invocare la nave o per calmare il mare. La vecchia auto sbarcata sul molo era totalmente arrugginita nel giro di una decina di giorni. Il padrone le aveva anche lasciato i finestrini un po’ aperti come si usa in estate. La mareggiata e la salsedine se l’erano mangiata dentro e fuori… Alla luce della luna, fu una visione spettrale. Poi pensai al libro di Mishima che stavo leggendo: Giovanna d’Arco, San Sebastiano, l’amore per Sonoko… E ancora, agli oggetti volanti, ai bagliori verdastri del cimitero, ai mille gradoni di Alicudi che avevo salito e disceso. Poi ancora la visione, dalla poppa del traghetto, di Napoli che lentamente scivola via, la confusione della mia famiglia, la cravatta nera di mio padre. Mi sentii un buco nero e infinito in petto.
Tornai alla spiaggia e mi accucciai al mio posto. Mi sentii toccare con insistente dolcezza. Doveva essere Grazia, una ragazza di ventisei anni che mi aveva parlato poco ma che mi era sempre sembrata molto sorridente. In genere dormiva alle mie spalle. Che cosa voleva da un bambino come me? Mi voltai e invece era uno dei due Gianni. Lo mandai a quel paese, e lui a sua volta mi disse: - Ma che campi a fare? - Ottima domanda, pensai. Chiusi gli occhi per riposare un po’.
Quando li riaprii era ancora notte e avevo ancora il cielo stellato sopra di me. Stavolta il silenzio aveva una qualità diversa. Non c’era brezza e non c’era la voce delle onde, eppure il mare era a due passi, immobile, come congelato da un incantesimo. Ero sulla riva di una laguna circondato da palme basse, e più in lontananza da una vegetazione rigogliosissima. Agli occhi era tutto estremamente nitido, come se l’aria fosse stata risucchiata via dal mondo. Cercai di fare mente locale, era molto tardi nella notte. Poi mi toccai il petto d’istinto, nessun buco nero. Provavo una grandissima pace, un sollievo senza fine. Espirai profondamente, come per immettere un po’ d’aria in quel paesaggio così fermo. Poche ore prima avevo preso un passaggio in macchina da due ragazze, sulla strada costiera numero 6, da Yomitan-son. Erano passati diciotto anni dai tempi di Alicudi e adesso ero capitato in un villaggio dell’isola di Okinawa. Quanto era lontana Alicudi? Ci ero veramente stato? Cosa mi aveva portato fin qui? Mi sembrò di aver saltato da un’isola all’altra... Quasi non avevo più coscienza di tutto ciò che era accaduto tra le due isole, del mare di ricordi. Forse gli UFO di Alicudi erano proprio le immagini di persone che vivevano le loro vite, attratte da galassie irresistibili e sempre diverse. Mi voltai, una delle ragazze della macchina era stesa dietro di me, alle mie spalle. La guardai per bene, ed era evidente che aspettasse che le dicessi qualcosa. La tenni sotto agli occhi a lungo e poi, in italiano, per lei incomprensibile, dissi a mezza voce: la bella sconosciuta. Lei alzò spalle e sopracciglia.
- Come hai detto che si chiama questo posto? – le chiesi. - È bellissimo…
- Onna-son.
- Ma dài, “il villaggio delle donne”? Dici sul serio?
- No, si scrive diversamente. – e segnando nell’aria i tratti degli ideogrammi disse: - “On” è quello di “debito di gratitudine” e “Na” significa… risolvere?
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Un anno dopo il grande terremoto di Hokkaido
Sapporo
E' trascorso un anno preciso dal terremoto di Hokkaido.
Non credo che potrò mai davvero dimenticare l'orrore e il buio, la forza della Natura. Per tre lunghi giorni milioni di persone hanno sperimentato la fine del mondo moderno, al buio, senza comunicazioni, cibo, negozi, mobilità e nel silenzio squarciante.
Non scrivo di un terremoto qualunque. E' stato qualcosa di inimmaginabile, così fuori dai parametri concepibili che il suo orrendo ricordo fa sprigionare un sorriso, quello di chi sa (certamente sbagliando) che qualcosa del genere non potrà ripetersi mai più.
Sono grato al Giappone per essere il Paese che è, e ai Giapponesi, "il popolo gentile" che - quando Madre Natura colpisce - colpisce anch'esso di scatto, attingendo e dando fondo ai suoi immensi magazzini di gentilezza.
E ora capisco perché i Giapponesi sono sempre (e a volte anche forzatamente) gentili. Il loro è un allenamento quotidiano in preparazione dei tempi peggiori. Quando occorre davvero, quando la più grande e volubile scure li avrà risparmiati, la gentilezza li salverà dalla fame, dalla pazzia e dalla violenza gratuita.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
La mia NDE - Alcuni anni dopo
Recentemente mi capita di ripensare spesso alla N.D.E. (Near Death Experience) che ho avuto a Kyoto, alcuni anni fa. Ne ho parlato con molti, l’ho raccontata per filo e per segno nel mio libro “Il Recinto”.
Per chi non sapesse di cosa sto scrivendo, mi riferisco alla assurda esperienza che ho avuto quando, da adulto, ammalatomi improvvisamente di varicella, nel giro di un pomeriggio mi sono trovato da solo, a casa, nel mio letto, senza forze e assistenza, con l’unica opzione di riposare, farmi innanzitutto una notte di sonno e all'indomani pensare al da farsi.
Non è andata proprio come mi aspettavo.
Non racconterò anche qui troppi particolari ma riassumerò esclusivamente l’esperienza della NDE. Durante la notte mi sono come ripigliato dal malore ma ho sentito, nonostante fossi steso e a riposo, che il corpo stava invece finendo di funzionare. Questo ripigliarmi per poi disfarmi sarà stato forse un classico esempio di “miglioria della morte”?
Oggi descriverei la cosa come una sensazione di totale disgusto: una metafora valida sarebbe quella di vedere che trapezisti, belve feroci e pagliacci abbandonano improvvisamente il tendone di un famoso circo a mezzo spettacolo.
Al mio corpo, e forse mai l’ho sentito così tanto un “contenitore”, veniva meno la sua generale organizzazione.
Poi, come spesso si sente raccontare a chi ha avuto tali esperienza, anche io mi sono visto dall'alto, e vorrei precisare che mi osservavo da un paio di metri di altezza e il punto di vista era alla sinistra del mio corpo. Tralascio altri dettagli per saltare al particolare della croce di luce.
Sul mio petto è apparsa una croce di luce, una croce di forma regolare, che ho sempre descritto come un “mirino laser”.
Senza alcuna sorpresa, e senza fare alcun dramma, ho osservato dall'alto il mio corpo e questa croce di luce scendere molto lentamente fin giù ai piedi, lì indugiare e risalire, sempre lentissimamente, e stavolta fermarsi e scomparire all'altezza dell’ombelico. Dopo lunghi minuti, in cui altro di inspiegabile è accaduto, devo essere rientrato nel mio corpo, perché da quell'istante è ricominciata – parlando cinematograficamente – la “soggettiva” della mia vita.
Ho sentito di voler raccontare questa esperienza solo molti anni dopo che era successa. E da qualche tempo – dicevo, e senza nessun particolare motivo – mi capita di rivedere la scena del mio corpo visto dall'alto. “Riviverla” è certamente un termine buffo per chi probabilmente stava morendo o forse è morto per un po'.
Rivedo spesso questa scena, ma senza alcun pathos. Pathos non ce ne era stato neanche nel momento originale. Rivivo la scena come a volerla rivedere in termini più razionali. Giacché era in corso una varicella fulminante, malattia che spesso non risparmia gli adulti, e giacché sono molti i racconti simili di persone che credono, o sono certi, di essere morti per qualche minuto, anche io riporto questa mia esperienza nei termini comuni di una N.D.E.
Dapprima ho pensato di aver sognato. Successivamente sono stato certo di aver avuto una reale NDE, quasi classica. Adesso penso forse più saggiamente di aver sognato una NDE o forse che tutte le NDE non siano altro che sogni - speciali.
In tal senso non intendo minimamente svalutare il concetto di NDE. Sono certo che siano esperienze genuine e sono certo di averne avuta una io stesso. Intendo forse invece agganciare il sonno e i sogni e assimilare il tutto, come credo sia giusto, a tutte le esperienze naturali vicine alla morte o alla emulazione di essa.
Da sempre ormai mi interesso al cinema e ai sogni (in termini artistici e scientifici) e avendo fatto anche una probabile esperienza di premorte oggi, dopo molti anni di pensiero laterale, riesco forse a mettere entrambi i problemi sullo stesso piano.
Nessuno sa spiegare la peculiarità creativa dei sogni, la loro potenza visiva e di trama e il loro carico semantico. L’ipotesi più semplice e riduttiva è quella di porre tutto a carico dell’inconscio e del vissuto del sognatore. Ma inconscio e vissuto sono solo alcuni mezzi necessari al sogno. Non si fa un film con uno sceneggiatore e una sceneggiatura improvvisata. C’è molto altro per cui valga la pena pagare il biglietto di un film. Allo stesso modo un sogno non è riducibile al sognatore e al suo vissuto. Il "macchinario" necessario a produrre un sogno (con trama, dettagli e personaggi) non è mai stato svelato, nè in termini biofisici e tantomeno in termini di capacità creativa dell'ambiente quadridimensionale e di tutti i suoi dettagli.
Una NDE, anche nella mera fase della OBE (Out of Body Experience) sembra effettivamente utilizzare gli stessi mezzi fondamentali di un sogno, probabilmente perfino con maggiore economia di mezzi. Lo sceneggiatore/regista vede innanzitutto sé stesso, da un punto di vista super-standard: non c’è spazio per virtuosismi e non c’è spazio per le trame e le ambientazioni stupefacenti dei normali sogni notturni. Non si creano le piazze delle città che frequentavamo da bambini, non si sale su treni o tram, nessun vecchio commilitone, niente maestra elementare, nulla di nulla. Solo sé stessi visti dall'alto. Una visione cinematograficamente banale ma, si badi bene, culturalmente molto meno accettata dei capolavori onirici che tutti siamo in grado di compiere quando dormiamo.
Avendo ricercato e letto migliaia di casi di NDE posso tranquillamente affermare che il mio sia un caso un po’ unico. In tutti gli altri casi, i morenti, dopo essersi visti dall'alto vengono accolti in una luce bianca che ama e comunica, o più raramente in un’oscurità, molto spesso anche benevola. Poi c’è chi incontra parenti di sangue, anche mai conosciuti, (dettaglio non trascurabile questo della parentela, perché a mio avviso offre uno spunto per allargare l’importanza e il dominio del codice genetico ben oltre i campi della medicina classica e legale) e poi c’è chi riporta di incontri con divinità varie, storiche, extra-storiche, astoriche.
È interessante per me notare che anche se il medium sembra essere lo stesso del sogno, il vocabolario a disposizione del morente è curiosamente limitato.
Io osservavo la croce di luce sul mio corpo. Non sono entrato in nessuna luce e non ho oltrepassato alcun portale. La mia deve essere stata una NDE terra-terra. Ma volendo cercare la luce, beh, io avevo la mia piccola croce laser puntata sul mio corpo. Se la mia NDE fosse stata solo un mero sogno potrei dire che quella luce è ciò che mi ha salvato, guarito in extremis. Ne sono ormai quasi certo.
Io amo il cinema, vengo rapito da ogni tipo di film. Sono famoso per non comprendere al volo anche le trame più semplici. Il cinema, che è luce dinamica, mi rapisce. Non posso neanche andare al karaoke perché i filmati asincroni che scorrono in background sul televisore mi distraggono a tal punto da creare un muro fonoassorbente tra me, le canzoni e gli amici eccitati e rumorosi.
Sono da sempre anche un sognatore professionista, ma purtroppo mai totalmente lucido. Nei sogni, anche se qualche volta mi capita di rasentare la piena coscienza, preferisco sempre affidarmi al principio creativo sconosciuto e non mi è mai capitato (o almeno non ricordo) di aver preso il controllo di un sogno, di essermi guardato il ventre, o allo specchio, o di aver fatto la classica prova del conteggio delle dita di una mia mano.
Quando oggi rivivo la mia NDE, e ciò accade senza il mio controllo, vedo me stesso dall'alto e quella croce di luce sul mio corpo. L’esperienza originale era lucidissima. Ciò che mi è mancato di fare è stato proprio volgere il mio sguardo ancora più verso il basso, al ventre del mio corpo mentale, lì sospeso in alto nella stanza. Non mi sarebbe costato nulla. E sarebbe stato interessante.
E giacché quella croce di luce era proiettata sul mio corpo dall'alto, sarebbe stato forse il caso di scovare il proiettore e quindi seguire il fascio di luce verso l’alto.
O forse no.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
When the (artistic) going gets tough, the (tough) artist would like to escape forward.
Coloro che si sono formati da artisti, e come tali si sono sempre dati al mondo o da esso tali sono stati riconosciuti, beh, credetemi, queste persone, in questi ultimi anni, si trovano in estrema difficoltà e imbarazzo.
Tutto il mondo si sta dimostrando un'opera d'arte viva ed esigente (bella, brutta, dettagliata, singolare, plurale, astratta, concreta, individuale, corale, classica, moderna, neoclassica, futurista, realista, surrealista, qualunquista, ecceterista) e tutti - anche i non artisti - sono inconsapevolmente al lavoro per contribuire con la propria tessera, col proprio tassello, con un tratto anche piccolo o sbavato grazie alla sovrabbondanza di mezzi di espressione e alla loro immediatezza d'uso.
Ma le cose non sarebbero dovute andare così... Personalmente, venti anni fa, non avrei immaginato - e non mi sarei mai augurato - che anche le persone in un certo senso non devote all'arte o alla creatività avrebbero avuto la possibilità di inondare la scena, i canali, i contesti...
Avrei compreso se l'avvento di Internet avesse dato a tutti accesso (in lettura e scrittura) alle informazioni ma a ben vedere sembra che l'onda della Rete abbia scavalcato gli argini e abbia concesso a tutti di operare nell'ambito dell'arte. Ma i risultati sono a mio avviso solo inquinati e inquinanti.
L'enorme mole di persone che ogni giorni scrivono, citano, schizzano la Rete con i loro colori è tale che non credo si possa più parlare di correnti, stili, anche volendolo fare dall'alto verso il basso, etichettando queste creazioni con i peggiori titoli: naive, trash, infantili, ecc...
Il fenomeno è troppo grande e diffuso.
Non che io che qui scrivo mi ponga tra le file di grandi artisti decaduti o derubati, certamente no. Ma anzi parlo da un punto di vista molto basso e operaio, di chi il secolo scorso (ma in realtà solo pochi anni fa) si formava in campi tecnici e di servizio quali la tipografia, la stampa, la fotografia, la ripresa video.
Sono cosciente che il progresso abbia favorito tutti - e certamente anche me! - donando opportunità espressive senza precedenti nella storia ma rilevo anche il fatto che questo allagamento dei comparti pone enormi questioni sul prossimo futuro della comunicazione, della reciproca comprensione tra esseri umani, è il caso di dirlo, iper-collegati.
La maggior parte di persone che oggi crea e dissemina le nostre frequenze di contenuti lo fa ignorando secoli e secoli di consuetudini tecniche ed espressive. E giacché sembra impossibile sopravvivere a questo tsunami di schizzi senza arte e né parte, sembra anche che gli ultimi professionisti si stiano adeguando al nuovo linguaggio che il popolo ha generato.
Su questo argomento sono disposto a rischiare, e anche passare per ciò che ovviamente non sono, cioè un nazista dell'arte, ma sono certo di essere immerso con tutti voi in un incubo fatto di mala-arte contemporanea.
Se non riesci a comprendere al volo questo mio lamento evidentemente mi sono espresso troppo brevemente o male, ma altrettanto probabilmente sei un semplice consumatore di questa mala-arte.
Se questo mio appunto ha invece solleticato qualcosa in te, sei forse un creativo anche tu con delle solide basi tecniche e morali. E ti immagino confuso come me.
Se sei un creativo ma questo lamento nulla ha smosso in te, evidentemente sei una giovane scheggia, un ubriaco iper-mediale. A questo punto dovrei dire "beato te! Che sei giovane e ubriaco".
Ma credimi, io no ti capisco. E forse tu non capisci me.
Di base ci facciamo schifo a vicenda, vorremmo evitarci ma non ci è possibile.
Sulla sovrabbondanza generale delle cose, alcune righe più avanti.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Il disturbo della sovrabbondanza
Come tutte le mie altre paturnie, anche questa che tra breve illustrerò credo sia molto diffusa. Peccato che nessuno, nelle mie cerchie, ne parli mai...
E' innegabile che questo XXI secolo ci stia regalando abbondanza. Per me è ormai una sovrabbondanza.
Abbondano sia le informazioni che gli oggetti materiali. Abbondano anche le opportunità.
Quando mi pare di non avere a disposizione opportunità, oggetti o informazioni, normalmente reagisco come qualcuno che si trovi a corto di qualcosa. Poi, passato il fastidio iniziale, mi accorgo che ciò di cui proprio non mi posso lamentare è la mancanza delle cose.
Il problema per chi come noi vive in un sistema sovrabbondante, è che la strada per ottenere ciò che davvero serve o si desidera è oggi costellata di oggetti, informazioni e opportunità inutili ma ben presenti.
Spiego in tal senso, da qualche anno a questa parte, la mia incapacità di realizzare i progetti che vorrei, pur semplici che siano. Non mi manca la fantasia, non mi manca il tempo, e certo non mi mancano i mezzi più necessari, ma temo che le traiettorie più semplici e intuitive per realizzare i miei piani, come sempre ho fatto, siano banalmente occupate da informazioni, oggetti e opportunità di puro ingombro.
E' come dover andare dalla cucina al bagno camminando su un pavimento disseminato di giocattoli, perline, fogli di carta e matite sparse.
Non credo di essere l'unico ad avere tale problema. E' infatti difficile perfino combinare qualcosa con gli altri, anche se si tratta di persone, amici, familiari o collaboratori molto ben rodati. La sovrabbondanza ci distrae tutti.
Per quanto riguarda me e la mia "economia personale" potrei redigere un report sul danno effettivo che la sovrabbondanza di cose mi ha cagionato negli ultimi cinque anni. Il numero di progetti e creazioni che si è arenato è in un certo senso astronomico. E dal mio canto sto cercando di prendere contromisure. Ma come è facilmente intuibile gli oggetti che ingombrano la traiettoria ideale non possono essere spazzati via, riposti, rifiutati o ignorati.
Trovo l'intera condizione novella ma assurda. Se ne dovrebbe parlare seriamente. Così - letteralmente - non si può andare avanti.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Uccellino - Imperatori - Uccellino
Ero in un kissaten ed era il giorno della Cultura.
Dopo uno squisito pranzo a base di hamburger giapponese casareccio, e dopo l'ultimo sorso di misoshiru, mi stiracchio e noto alle mie spalle tre cornicette poste su un piccolo scaffale.
Nella prima cornice a sinistra c'è la foto di un uccellino azzurro.
Nella seconda cornice, al centro, ci sono i volti del nuovo Imperatore e consorte.
Nella terza cornice, la foto di un altro uccellino, bianco.
Il vecchio kissaten forniva uno sfondo e un'ambientazione eccellenti per scattare una bellissima fotografia di quest'angolo. Sarebbe stata una bella fotografia per un ipotetico reportage sul primo anno dell'epoca Reiwa. Ho immaginato di scattarla con la mia Mamiya 645, rigorosamente con pellicola in bianco e nero, per preservare l'aspetto sociologico dello scatto. Ma non giro più con tali fotocamere in borsa.
Avrei potuto allora scattarla con l'agio di una macchina digitale. Ma anche non giro più con la macchina digitale in borsa. Non quotidianamente.
Ho pensato che avrei potuto comunque scattare la foto con il cellulare. Sebbene la lente del telefono sia scadente, la qualità di scatto dei telefonini oggi è superba. Ma avrei condannato questa mia visione a una venuta al mondo di terz'ordine rispetto al mio ideale visivo del momento.
Ho anche preso il cellulare in mano. Ormai è il gesto che tutti facciamo più spesso durante il giorno...
Ma qualcosa mi ha bloccato.
Ho il chiaro ricordo di cosa significhi scattare con la Mamiya medio formato. Mi sarei dovuto alzare dal tavolino e inquadrare bene il soggetto tenendo la macchina ad altezza ombelico, misurare dapprima la luce e poi scattare, sottraendo via ogni mia umana mollezza corporea per non generare una foto mossa.
Con la digitale professionale, avrei potuto scattare da seduto. Come è facile notare, il digitale mi avrebbe impigrito, sia perché avrei potuto comporre lo scatto da seduto guardando in un facile mirino orizzontale (o nello schermo LCD), scattare più di una posa, perché uno scatto digitale non impone la preoccupazione di uno sviluppo e di una stampa costose o malriuscite.
Col telefonino sarebbe stato facilissimo, e oggi avreste anche questa mia foto sia qui su questa pagina che in giro per la Rete, condannata però ad ad un'esistenza ignorante, e deprezzata, senza poter deperire...
Ma ciò che mai avrei voluto fare era rubare l'anima a quel trittico di cornici e soggetti. Per assurdo, il furto di cui parlo avrebbe avuto più senso se fossi stato costretto in un certo senso a esplicitarmi più classicamente come fotografo. Rubarla pigramente, da seduto, col telefonino mi ha dato pena al solo pensarci.
Poi, dopo aver pagato ed essere uscito dal negozio ho ripensato al discorso - quasi da selvaggio - del rubare l'anima di qualcosa con la fotografia, e ho capito che ciò che non avrei voluto fare era in realtà duplicare un'anima.
Il disegno, la pittura e la fotografia non hanno mai rubato anime. Ne hanno forse moltiplicate.
Credo che la descrizione testuale di quelle cornicette assieme a tutto questo mio forse inutile pensare non siano un furto, e tantomeno la duplicazione dell'anima di qualcosa.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Il sabato del villaggio (giapponese)
2019-12-01
La giornata di ieri è stata un po’ diversa dalle altre.
È cominciata con una visita dal dermatologo per un banale prurito alle ginocchia. Sono andato a uno studio molto piccolo, vicino casa, e che in un certo senso dovrei definire lo studio di un medico di campagna.
Il dottore è anzianissimo e dichiaratamente sordo. Nonostante ciò è una persona di una eleganza che definirei “somma”. Elegante e curatissimo. Il suo essere un po’ curvo, perfino da seduto, conferiva autorevole coerenza alla sua figura generale. Le infermiere mi hanno raccomandato di parlare a voce molto alta in direzione ravvicinata alle sue orecchie.
Ho scoperto le ginocchia e subito me le ha toccate con grazia e sapienza. Mi aspettavo che le osservasse e facesse la sua diagnosi e invece senza indugio le ha toccate. Poi mi ha chiesto se avevo pruriti simili altrove e io ho risposto di sì, alle caviglie e ai gomiti. Mi ha chiesto di mostrare le parti e, anche in questo caso, la prima cosa è stata toccarmi con questa grazia insistente, che non percepivo da anni sulla mia pelle.
Mi ha tranquillizzato dicendo che si tratta solo di un’irritazione dovuta all'aria secca dell’Inverno di Hokkaido, che non devo lavarmi con saponi liquidi ma usare la schiuma dei saponi classici in pietra.
Per tutto il tempo che mi ha parlato ha continuato a tenere le sue mani sulle mie gambe, ginocchia, dandomi queste pacche impercettibili, per nulla fastidiose, anche mentre si girava per parlare con le infermiere e la visita vera e propria era finita.
Mentre istruiva un’infermiera su quali unguenti preparare, continuava a mantenere il contatto con il mio corpo nello stesso modo in cui si tocca un puledro un po’ agitato: il suo toccare ha avuto effettivamente un potere calmante su di me.
Ha poi detto a una graziosissima infermiera di darmi le creme adeguate.
L’infermiera mi ha fatto sedere sul lettino ed è venuta con questo tubetto di crema che già fuoriusciva leggermente. Io ho fatto per prenderne un po’ e lei ha istintivamente chiarito: la metto io! E anche lei, con estrema grazia ha cosparso di crema le due ginocchia, le caviglie, i talloni, i gomiti, la nuca… Era questa un’operazione che avrei fatto tranquillamente da me e che – pur guardando nelle mie esperienze simili e passate – proprio non era necessario che mi fosse fatta.
Non so se tutti i dermatologi sono così familiari e disponibili con i pazienti ma io ho potuto sentire sulla mia pelle, è il caso di dirlo, questa diffusa ben disposizione.
Poi per questioni di lavoro mi sono dovuto spostare dal Sud di Sapporo all'estremo Nord. Al Nord c’era già abbastanza neve. La differenza mi ha molto colpito, ed è prova evidente di diversi microclimi nella stessa città. Ciò accadeva anche a Kyoto: a ridosso del fiume Kamo si poteva assistere quasi a diverse stagioni, solo volgendo lo sguardo da una strada all'altra.
Ho pranzato qualcosa in un locale della 31ma strada, scelto a caso, e anche lì ho avvertito questa sensazione di spazioso benvenuto, sia in termini architettonici che di ben disposizione del personale.
Con la neve fuori, il locale era baciato da un sole già vagamente serale. Di fronte a me quattro donne con la divisa della Suzuki e un paio di salariman solitari che mangiavano leggendo fumetti.
Ho ordinato il piatto del giorno e la padrona mi ha chiesto se volevo porzione normale, doppia o tripla! Conoscendomi ho chiesto la normale. E per 864 yen (circa 7 euro) mi è arrivata un’insalata di cavolo condita con una salsa “dressing” da capogiro, tanto era buona, una porzione grande, per essere normale, di riso bianco con pesce essiccato e tritato, una zuppa di miso fumante, un hamburger che esageratamente enorme è dir poco, un assaggio di spaghetti alla napoletana che era vicino alla quantità di un piatto tipicamente italiano, una porzione abbondante di squisite patatine, fritte in maniera casareccia, perfettamente salate e per il mio gusto perfettamente bruciacchiate.
Questo pranzo, baciato dal tepore orizzontale del sole, mi è sembrato durare all'infinito. E anche in questo caso, ho chiaramente avvertito in me – dopo anni - la sensazione di inesprimibile riconoscenza che si prova quando ci si sente protetti e nutriti.
Quando mi sono mosso per andare via la padrona mi fa: - E va via senza bere il caffè?
Ovviamente nel prezzo era inclusa una tazza di caffè lungo per la quale ho potuto scegliere tra “mild”, “francese” o “amarostico”… E l’esperienza di casa, di rifugio, di protezione e nutrimento ha avuto il suo tempo extra e inaspettato.
Disseminati per il grande locale vi erano scaffali con una grande quantità di fumetti, libri e riviste di ogni tipo. Su ogni scaffale la scritta perentoria:
“Poiché anche gli altri clienti leggono, vi preghiamo di prendere un massimo di tre volumi ciascuno.”
E a ben vedere, ogni cliente seduto per proprio conto, al proprio posto, aveva dinanzi a sé giusto tre volumi.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Le "E" tra pace e guerra
Stamattina mi sono svegliato con la chiara sensazione di aver sognato me stesso, bambino, seduto nel banchetto della scuola elementare, quando la maestra ci illuminò tutti con la rivelazione delle E.
- Alcune vocali a volte si scrivono con l'accento. Per esempio la A di "città"! Anche la E, a volte si scrive con l'accento, quando vogliamo chiedere "perché". Ma anche quando usiamo il verbo essere alla terza persona singolare.
Fabrizio non perse tempo e chiese - Maestra, perché?
- Perché è così da sempre.
Io ricordo il mio grande interesse per queste cose ma anche la chiara sensazione di rischiare di rimanere indietro per sempre. Cos'è davvero un accento, perché è importante. E perché bisogna dire perché, cosa succede se ci si dimentica l'accento, o peggio ancora, mi piacerebbe riascoltare la spiegazione di cosa sia una terza persona singolare.
La maestra continuava.
- In particolare le E possono essere E semplici, di congiunzione, oppure E di copula. Capito la differenza?
Oggi non credo esista una lingua la cui differenza tra congiunzione e copula sia tanto sottile, affidata a una semplice impostazione della voce quando si parla oppure a un tratto strisciato sulla carta quando si scrive.
La quasi impossibile indifferenza tra "guerra e pace" - in italiano - e "guerra è pace" è certamente significativa di qualcosa.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
L'antagonista protagonismo dell'invisibile
Sulla teatralità delle città ben governate.
Non sfuggo alla mia napoletanità, sarebbe impossibile pur volendo.
Dopo tanti anni di Giappone riconosco in me, sempre, una (seppur controllatissima) tendenza mediterranea all'esagerazione, alla platealità, alla teatralità.
Ricordo bene che vivere a Napoli e frequentare le sue strade era una quotidiana immersione nelle storie interiori di tutti, amici e perfetti sconosciuti.
Tutti inscenavano una loro parte, coscientemente e coscienziosamente: era il modo dei miei concittadini di partecipare alla società, di crearla ogni giorno, in maniera forse volatile ma insistente e continuativa. Eh sì, perché tutto il resto necessario alla vita mancava spesso all'appello: i soldi, i servizi pubblici, gli spazi, un canovaccio condiviso, dovrei dire una volontà registica.
In Giappone questa dimensione umana, plateale, sudata e urlante ovviamente è assente. Eppure essere cittadino in Giappone garantisce una sensazione simile a quella di essere - come nel caso di Napoli - in un teatro a cielo aperto.
Mentre forse a Napoli si è tutti un po' protagonisti delle proprie scenette, il palco giapponese accoglie molte più comparse e figure silenziose.
Eppure, un giorno, seduto al finestrone di un caffè al centro di Sapporo mi sono accorto che da un giorno all'altro la scena dell'intera via principale della città era cambiata. La strada era stata addobbata per le festività natalizie. Il giorno prima nulla, il giorno successivo una quantità enorme di addobbi e luminarie.
E in questa strada centinaia di persone vivevano e (ovviamente) recitavano con classe ed eleganza come ogni giorno.
Dunque la teatralità napoletana che manca ai Giapponesi è invece presente nei termini di una perfetta volontà registica e scenografica.
E' evidente che nel giro di poche ore di una notte un team di decoratori ha rivoltato il corso principale della città per far sì che il giorno seguente tutti gli attori-cittadini potessero vivere e recitare nella versione natalizia del loro palco.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Sempre ora.
A una delle donne più anziane del Giappone (116 anni) è stato chiesto:
- Qual è stato il più bel momento della Sua vita?
Lei ha risposto:
- Ora. Senz'altro ora.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Il Re del 2020
Aldilà della crisi provocata dal Corona-Virus, sto capendo che molti dei miei annosi problemi personali e interiori sono sempre (stati) dovuti al fatto di aver completamente perso da tempo (per la precisione da quasi sei anni) la capacità di processare la vita così come viene davvero, cioè giorno per giorno.
La vita reale - e quotidiana - sgorga proprio così, verso di noi, dalla sua misteriosa fonte: nella massima comprensibile misura del giorno per giorno.
Poi esistono anche quei misteri che si chiamano "momenti"...
Se un momento è "memorabile" può anche e perfino obliterare un intero decennio dal nostro sistema di ricordi e valori.
Un discorso simile lo tenterei per l'attrazione fatale verso le comunità virtuali e numerose e il relativo desiderio di iper-connessione con tutti a ogni costo. Esistono d'altro canto individui, accanto a noi, invisibili e ignorati, che possono fare per noi (e subito!) più di quanto non possa fare un gruppo, un confessore, un presidente, un leader carismatico, o anche un Dio.
Il momento presente è unico e inequivocabile.
Se è brutto, dura poco: se ne esce sempre vivi, tutte le volte - tranne l'ultima.
E a pensarci bene mi va benissimo cosi'.
Nell'organismo del Tempo, il giorno è molecola e il momento è l'atomo (at-tim-o) imprendibile.
***
Da un entusiasmante passo del Tao Te Ching:
"Fino al momento della propria morte non si sarà mai in pericolo".
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Zainal Muttaqien
| Zainal Muttaqien
Oggi mi ha raggiunto la notizia della “partenza da questo mondo” a soli 65 anni, di una cara persona: quella ritratta in foto da giovane, con sguardo serissimo.
Una persona che nell’economia più normalmente comprensibile degli affetti dovrei definire dal ruolo fondamentale e insospettabile; una persona che era già scomparsa una volta, e poi ancora di più, e ancora di più, fino a collocarsi tanto lontana, da apparirmi (a occhi chiusi) come una nave sul ciglio dell’orizzonte, che navigasse per rotte ormai inconoscibili, ma che ancora mi mostrasse - di sé - solo la parte più alta del suo albero maestro.
In un post di un mio blog del 1999 ho trovato questa frase riferita a lui:
“E (qui in Giappone) penso a Zainal! Artefice di felicità, e voglia di girare e parlare; prendere navi e treni, polvere e galline. Immagine della speranza del viaggiare, e della fiducia nel prossimo.”
Pak Zainal sudah meninggal Dunia.
Hai lasciato questo mondo. Ora sei oltre quell’orizzonte.
Quando eravamo ancora due sconosciuti ci siamo salutati sempre, la mattina presto, al quinto piano di Palazzo Corigliano. Per me era un uomo misterioso ma gentilissimo e, ancora a digiuno com’ero di mondo, avrei giurato che fosse un indiano d’America!
Poi decisi, di mio, di studiare indonesiano e quando me lo ritrovai in classe, elegantissimo per l’occasione della prima lezione del corso, fui sorpresissimo, ero lo studente più felice del mondo. Lo conoscevo, gli ero quasi amico e sapevo già del suo cuore d’oro.
Anche da lui proviene il mio nickname “Iskandar”. Ma sapete, nel nostro piccolo mondo indonesiano il nickname non era un semplice nickname: era una vera e propria investitura, un’anima nuova. Tutti al corso abbiamo ricevuto un nome indonesiano ed era una faccenda in un certo senso seria. Almeno così la fecero vivere a me!
Io chiesi anche un cognome ma lui mi rispose che non ne avevo bisogno, perché spesso nemmeno gli indonesiani ne hanno uno! Ma mi disse che se volevo potevo usare il suo. E ammetto, negli anni Novanta e poco dopo, di aver registrato tutti i miei software a nome “Iskandar Muttaquien” (con una “u” in più, all’italiana)…
Spesso tornavamo insieme dall’Università alla Stazione passando per i bassifondi di Napoli, Forcella, Duchesca... Una volta mi disse, con circospezione -
Di sini hidup orangorang yang aneh sekali…
(Qui abita gente veramente strana…) e colsi un mondo immenso di delicatissime sfumature e imbeccature culturali.
Ci portava a fare gite di ogni tipo e per me una gita memorabile fu a Roma, per ascoltare un concerto di Gamelan. Tornammo la notte stessa a Napoli: in un treno notturno affollatissimo e infernale decidemmo di concederci il vagone postale: seduti a terra tra i sacchi di posta e la saracinesca del vagone un po’ aperta per far entrare aria fresca.
Una volta eravamo seduti sulle panche di pietra all’ingresso del Palazzo a fare “cucimata” (/ciucimata/ cioè: sciacquarci gli occhi guardando belle ragazze) e la nostra amica Letizia era con noi. Nacque questa conversazione, benedetta dalla brezza primaverile e una “senca” traversa di sole.
Letizia gli disse: - è vero che il tuo nome si scrive Zain’al, con l’apostrofo?
E lui rispose: - Mah, si...
E io: - Allora io ho sempre sbagliato scrivendolo senza apostrofo?
E lui: - Ma no, no…
E lei: - Ma scusa, non è un nome arabo?
E lui: - Sì, ma puoi scriverlo come vuoi.
E io: - Quindi faccio bene io a scriverlo senza apostrofo?
E lei: - No! Faccio bene IO a scriverlo CON l’apostrofo!
E lui, facendo spallucce, divertito, amato e circondato: - Ma è un apostrofo!
Mi ha insegnato con divertita pazienza a parlare la sua lingua. Mi telefonava a casa per ricordarmi di fare i compiti. Mi ha offerto un numero incalcolabile di caffè. E nel giorno più vittorioso della sua vita professionale a Napoli, addirittura una pizza al tavolo, a piazzetta Nilo! E insieme addirittura pianificammo il mio primo viaggio in Indonesia e lui il suo primo rientro in patria dopo, credo, più di un decennio, nell’imminente agosto.
Io però mi ferii un piede e non potei più partire. Lui partì ugualmente, ma un brutto male se l’è preso proprio durante il volo verso casa…
Professore instancabile, giornalista sportivo e poeta delicatissimo.
Quando fu chiaro che non sarebbe più rientrato dall’Indonesia, ad alcuni di noi studenti fu chiesto di liberare casa sua, a Napoli, e fu come profanare qualcosa.
E fu una profanazione a tutti gli effetti.
Quella casa era un tempio di inimmaginabile integrità morale. Tale era l’uomo che l’abitava.
Pak Zainal sudah meninggal Dunia, tetapi hidup di hatihati kami.
Hai lasciato questo mondo ma non i nostri cuori.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
Icone semplici per meccanismi complessi
Non trar fuori il pesce dalle sue profondità. Gli strumenti (utili allo stato) non devono esser mostrati agli uomini.
Tao Te Ching, XXXVI
In una conferenza di molti anni fa, Terence McKenna, parlando di Taoismo, riportò di come il giovane partecipante a una sua conferenza ancora precedente, parlando anche lì di Taoismo, ebbe l'intuizione-illuminazione che il simbolo del Tao fosse di fatto quello di una "interfaccia".
Ora, quale sia stata l'originale profondità di quella intuizione, da parte di questo illustre e giovane sconosciuto, noi oggi non possiamo saperlo, ma sono convinto che aver accomunato i due concetti Taoismo-Interfaccia sia stato assolutamente corretto.
Negli ultimi trent'anni, la "Teoria dell'interfaccia" si è senza dubbio fatta strada, grazie anche al fatto che le assurdità filosofiche necessarie a teorizzarla non siano più appannaggio di scienziati e filosofi ma siano oggi sperimentabili nel quotidiano delle vite di tutti noi.
Oggi tutto si avvale di un'interfaccia e la nostra dipendenza da interfacce, per governare sistemi e meccanismi troppo complessi da conoscere in dettaglio, ci dà la possibilità di capire che il binomio "icona-meccanismo" non è preponderante esclusivamente nella nostra agiata vita digitale, ma lo si può effettivamente trovare dappertutto.
Va anche detto che la sorpresa di ritrovare interfacce dappertutto è direttamente collegata alla capacità di astrazione dei singoli, capacità di astrarsi da quella che è forse la più feroce necessità di interiorizzazione asservita alla sopravvivenza nell'ambiente.
L'icona di un software di computer o quella di una applicazione di smartphone sono l'interfaccia (simbolica) per avviare una successiva interfaccia operativa, per appunto operare un programma in maniera semplificata. Dobbiamo necessariamente ignorare l'originale linguaggio di programmazione ed esecuzione del programma se vogliamo trarne una immediata utilità.
Quotidianamente, dunque, solo usando un telefono o un computer, tutti accediamo a questa procedura facilitata per raggiungere il nostro utile scopo: controllare le previsioni del tempo, inviare un messaggio, riguardare una fotografia, ecc.
Ma lo stesso si può dire anche di interfacce più meccaniche e per nulla digitali.
Condurre un treno, operando alcune leve e osservando alcuni manometri, è un altro esempio di come l'utilizzo di interfacce semplificate (raggruppate, manipolabili, comprensibili) sia necessario affinché l'utilità di qualcosa sia portata ai massimi livelli, con il minimo grado di sforzo operativo. Ci si immagina a correre forsennatamente per lo stretto corridoio di un locomotore elettrico cercando di operare a mani nude i connettori di altissimo voltaggio per alimentarne i motori? Certamente no.
Ma lo stesso si può dire del "centralinismo telefonico". Una volta si connettevano i due capi di una linea telefonica salendo sulla cima di un palo di legno, poi, con la creazione di interfacce semplificate, il lavoro divenne appannaggio di signorine in tailleur che con alcuni spinotti su un pannello erano in grado di gestire traffici telefonici concitati. Oggi l'interfaccia necessaria a quell'operazione si è addirittura assorbita nel nulla invisibile...
La Teoria dell'interfaccia afferma chiaramente che la realtà quadridimensionale che ci circonda non è la realtà di base: è evidentemente una realtà illusoria ed emergente, non certo fondamentale. Lo spazio-tempo non può essere fondamentale perché è dimostrabile, con precisione matematica, che gli agenti coscienti e viventi che hanno la sfortuna o l'imperizia di percepire la realtà nella sua vera assurda completezza vengono posti fuori dai giochi, dall'ancestrale meccanismo evolutivo che sembra governare sul pianeta Terra.
Come dire che: "la Natura tollera i ficcanaso ma non li supporta attivamente".
La realtà delle cose e dell'ambiente che ci ospita ci è preclusa, accuratamente nascosta, da una regola fondamentale di sorta che, dati alla mano, sembra semplicemente fare in modo che noi non si muoia, scompaia, estingua (in quanto individui singoli e in quanto specie) vivendo in modo troppo stupido, allocando risorse mentali e fisiche che non siano direttamente utili alla nostra sopravvivenza.
Anche con lo sguardo del XXI secolo, la Natura sembra avere come primo scopo per noi quello della nostra riproduzione. Tutto il resto è decorazione.
In tal senso, scienza e filosofia, possono dunque essere intese come attività pericolose, peregrine e dissidenti. La Natura ci sembra suggerire, proprio con il suo silenzio, di non focalizzarci sull'indagine delle cose (e di sé!) bensì di darci pienamente al gioco della vita nel suo abbraccio.
Si specula da molti anni ormai sul fatto che il mondo possa essere una simulazione tecnologica di un qualche tipo. Ed è molto probabile che lo sia. Se lo è, ciò vuol dire che vi siano appunto una realtà, uno scopo, uno spazio e un tempo a noi nascosti e sconosciuti, proprio come lo spettatore accetta di seguire uno spettacolo teatrale incurante dei tempi e dei meccanismi che lo rendono possibile - e che noi, per tacito e gentile accordo, ignoriamo coscientemente per non infrangere il godimento della... simulazione.
Il forte suggerimento che si viva in una simulazione, non ce lo da solo la matematica delle probabilità e il fatto che si sia prossimi - in questa stessa dimensione - a una "singolarità tecnologica" in grado non solo di dimostrarlo ma perfino di dar vita alla nostra stessa capacità di generare universi simulati subalterni.
Ma quando le cose stian così, anche solo teoricamente, vien fuori dalla più banale osservazione che... sì, tutto è "interfaccia iconica semplice", subita, accettata, imitata, forgiata e utilizzata in tal modo proprio per nascondere meccanismi troppo complessi da poter essere espressi diversamente.
Perfino noi stessi possiamo definirci delle icone. Guardarsi allo specchio ne è una prova.
Se ci si guarda allo specchio senza chiedersi "cosa si vede" ma "chi si sta vedendo", ecco che ci si pone sull'orlo di un vero abisso concettuale. L'immagine riflessa di noi stessi è assolutamente muta - in termini di identità.
E' ovvio che si assiste all'immagine vacua di un involucro, ma quell'immagine non ci restituisce nomi, avventure, amori, timori, segreti. Nulla di nulla.
Proprio come nella metafora del linguaggio HTML, che costruisce i suoi documenti accoppiando una HEAD e un BODY, propri nella HEAD abbiamo i tag META, in grado di raccontare storie o imporre caratteristiche di identità che non siano necessariamente percepibili nel BODY.
Che la struttura del linguaggio HTML sia ispirata (a valle) alla struttura ben interiorizzata del corpo e dell'essere umano è ovvio! Ma non è sempre ovvio ipotizzare che probabilmente anche la struttura del sistema che ci ospita possa essere (a monte) del tutto simile: un modulo fisico e un modulo veramente metafisico. Si badi bene: non banalmente metafisico, non metafisico in termini concettuali, non "letteralmente metafisico" bensì
seriamente metafisico
; "meta" come tutti i ricordi, percezioni e segreti che albergano nella nostra mente, dati corposi che certamente non ignoriamo ma che anzi, senza timore di sbagliare, direi che sono la spinta alla quasi totalità di azioni che compie il nostro corpo fisico, più o meno coscientemente.
La nostra stessa immagine è dunque un'icona statica, che si fa interfaccia operativamente sociale per eventualmente interagire con gli altri partecipanti al gioco della vita. Ma è interessante notare quanto la nostra interfaccia esteriore sia esplicita per certi versi (età di massima, cura personale, qualità della pelle, taglio di capelli, accessori decorativi) ma anche assolutamente omertosa per quanto riguarda tutto il resto che sia vera identità e livello di coscienza.
Questa laconicità della nostra icona personale spiega anche perché alcune culture usavano - e ancora usano - marchiare il proprio corpo e il proprio volto: certamente per far sì che quel viso, quell'icona di carne, comunicasse di più di quanto la Natura non le permettesse. Oggi questa marchiatura è generalmente affidata a interventi reversibili e temporanei quali trucco, abbigliamento, ecc, che sembrano avere una connotazione per molti versi... giocosa.
Dunque, noi stessi siamo portatori ignari e distratti della regola principale che governa il nostro ambiente: quella di nascondere pur con tutta la nostra presenza la nostra realtà fondamentale (e quella delle cose, tutte) per rifletterne esternamente solo una minima parte, quella eventualmente utilizzabile da altri, per scopi che, pur con tutta la buona volontà e fantasia non possono debordare da quanto sia davvero previsto dal sistema, utile all'ambiente o ai suoi consociati.
Il Taoismo, che ci dice da sempre che "la Natura è silenziosa", nel passo qui riportato, afferma chiaramente che vi sono cose che - pur potendo - non conviene portare alla luce.
Per un libro che fa di tutto per portare alla nostra attenzione il concetto di "utilità", e di come questa utilità si trovi spesso
tabernata
in sub-concetti e azioni funzionali al "Vuoto" (concetti controintuitivi, per un uomo che evidentemente già alcuni millenni fa sembrava non sapere dove trovarsi) direi che è prova di stupefacente modernità e avanguardia.
Ed è sì un forte indizio che il concetto di interfaccia sia centrale alla comprensione della condizione umana sul pianeta da un bel po'.
Non trar fuori il pesce dalle sue profondità. Gli strumenti (utili allo stato) non devono esser mostrati agli uomini.
Alessandro Wm Mavilio
- Ezo -
La Bestia
(Anche da seduto, le mie ginocchia continuano a tremare. Spero sia solo un tremolio impercettibile, invisibile. Continuo.)
In tanti anni di carriera non mi era mai capitato di ottenere un’intervista tanto importante in un modo così inaspettatamente… facile. Voglio dire, non Le nascondo che ero – e sono tuttora – addirittura molto preoccupato per la mia incolumità, che possa perfino accadermi qualcosa da un minuto all’altro…
(Ride soronamente) Stia tranquillo, stia tranquillo. Se fosse come dice Lei non saremmo arrivati fino al punto di incontrarci, non crede?
Beh, sì… Devo ammettere che perfino riuscire a contattarLa è stato più facile di quanto immaginassi.
Lei è un giornalista molto determinato, ma è pur vero che nessuno di noi si nasconde. Più che altro nessuno ci cerca davvero. Sa, la maggior parte di voi si accontenta di pubblicare dei nomi, perciò noi restiamo, come dire, famosi, mitici, e invisibili ai più. Poi il nostro è un cognome così comune.
Ho ovviamente una scaletta ragionata e pronta di domande, ma se permette romperei il ghiaccio in modo un po’ impulsivo. Ha appena detto “noi”, ha detto che “nessuno di voi si nasconde”. Allora, per spiegarlo ai miei lettori, Le domando a bruciapelo: “chi siete voi?”
È sicuro di comprendere la risposta? (Sorride e guarda in basso, di lato.) La risposta più semplice e giusta è che siamo “la famiglia”: una famiglia spropositatamente agiata, con interessi, hobby, figli che studiano all’estero… Ma non credo di dirLe nulla di nuovo o osceno.
Allora può dirmi di più?
Beh, non Le dirò nomi, luoghi o date perché mi risulta che sappia anche abbastanza in tal senso.
(Sorrido nervosamente e controbatto.) E infatti mi interessa soprattutto indagare se… avete un lato umano. Perché anche con tutta la beneficenza che fate, in un disegno più ampio tutto sembra suggerire il contrario.
Oh. Lei va giù pesante da subito. Se “siamo umani”, dice? Le sembro forse un rettile? (E indietreggia leggermente il capo.)
No! Non faccio quel tipo di giornalismo… Ma qualcuno dice che non siete diversi da degli sciacalli…
La prego solo di restare nei giusti termini…
Sì, mi scusi. Forse è per colpa della tensione.
La nostra fortuna proviene dalla capacità tutta nostra di dominare il tempo. Siamo diversi dalle altre famiglie anche perché rifiutiamo le tensioni bilaterali. Certo, reagiamo molto seccamente agli attacchi, alle offese, alle mancanze di rispetto.
(Penso a come togliermi dall’imbarazzo… E invece me ne esco con un…) Uccidete?
Quando è servito lo abbiamo fatto. E Lei lo sa bene.
Si rende conto che ha appena ammesso di aver contezza di un crimine commesso dalla Sua famiglia?
I suoi nonni e bisnonni, in guerra, hanno ucciso molto più di noi. Dovrebbe anche Lei ammettere con candore di avere avuto antenati violenti.
Ma i miei nonni avranno ucciso perché costretti dalle circostanze! (A ciò, non controbatte e lascia un ghigno sospeso in aria… Ma sono abbastanza lucido da rendermi conto di avergli dato un assist. Una sola parola in più su questa linea e mi mette in scacco matto. Allora cambio linea.) Sempre tecnicamente, possiamo definirvi una sorta di mafia?
No. (E accavalla le gambe.)
Può dirmi di più? Mi interessa molto porvi in una categoria.
Allora dovrà crearla, questa categoria. Ma non sono certo che riuscirà a darle un nome, e usarla per le Sue mappe mentali e tantomeno farla comprendere ai Suoi lettori.
Mi dica.
Dunque. Ci ha provato maldestramente con la categoria di “mafia”. Ma capisco questo Suo scivolone. L’aggettivo “mafioso” è usato a sproposito, e semanticamente è certamente il termine più “glocale” e trasversale per significare “un atteggiamento alternativo, di ampio respiro, su molte attività fondamentali dell’umanità”. Lei parla di “mafia” forse perché io Le ho sottolineato il concetto di “famiglia”.
Si è offeso?
Molto. Noi siamo infiniti ordini di grandezza più potenti delle mafie.
Intende finanziariamente?
In tutti i sensi. Se può servire a sedare questi suoi slanci inopportuni e puerili, Le dico che noi da almeno duecento anni non abbiamo neanche più bisogno di tracciare la nostra ricchezza e le nostre capacità economiche. Sì, abbiamo molte attività nel “mondo reale”, ma funzionano allo stesso modo di come Lei in casa possiede o utilizza lampadine o elettrodomestici: le accendiamo e spegniamo senza pensarci su troppo.
E allora in che senso siete infinitamente superiori alle mafie?
È un fatto di mera apicalità. Certamente saprà che in maniera molto intrecciata e dinamica mafie e governi controllano territori e popolazioni, opportunità e risorse; quando serve si combattono reciprocamente, quando serve si coalizzano…
Sì, questo è noto.
Beh, noi controlliamo loro, tutti loro, da un’altezza tale che non è più possibile per essi accorgersi del nostro respiro.
Controllate anche i governi?
Che domanda.
(Resto in silenzio. Poi lui continua.)
Le regalo un aneddoto familiare. Quando ero bambino, mia madre faceva giocare me e i miei fratelli con l’asciugacapelli e i ragni. Quando dico ragni, intendo quelli belli grossi.
(Aspetto che continui e prendo note…)
Prendi un ragno dalla teca, lo metti a terra su un percorso simbolico simile al Monopoli e con un getto di aria appena calda lo dirigi dove vuoi. Era divertente vedere quale ragno andasse nei luoghi che volevamo noi, e completasse il percorso della vita. A fine gioco eravamo obbligati a uccidere i ragni.
Perché?
Immagino che sia triste ma il motivo era – data la loro grandezza – di non lasciare che riponendoli nella teca e utilizzandoli una seconda volta potessimo affezionarci a essi come fossero dei cuccioli. Le madri hanno una vera fissazione per il riordino dopo il gioco. E da noi tutto assume una dimensione massima. Rassettare e riordinare sono due termini davvero centrali nel quotidiano della nostra famiglia.
(Resto ancora in silenzio a prendere note…)
Il percorso del gioco sul quale facevamo andare i ragni era fondamentalmente lineare e simbolico della vita. Una forma simile a una croce di Lorena, ma più dentata. Sa, nelle caselle c’era proprio scritto “asilo, scuole primarie, college” con alcune deviazioni, sempre simboliche, del tipo “apre un’azienda”, “va in pensione” o “muore giovane”. Alla fine del percorso c’era sempre scritto “morte” e noi in famiglia prendiamo molto seriamente la morte.
Perciò i ragni andavano uccisi?
Sì. Ogni ragno era grande quanto una Sua mano.
Va bene, è chiaro il concetto.
Ecco, se i bambini delle famiglie normali giocano al Monopoli con delle pedine, a noi ci hanno abituato a giocare con delle entità vive, biologiche, e in un certo senso dotate di un libero arbitrio, certo alieno agli umani, ma sa, noi si imparava a controllare l’incontrollabile.
Capisco…
Ma era comunque solo un gioco. Discutibile per Lei, ma era un gioco molto formativo per noi.
Sì, sì, certo, è chiaro. Sto cercando di riorganizzare le implicazioni di questo gioco educativo.
Beh, i ragni sono insieme dei parassiti e dei veloci predatori, in grado di tessere tele invisibili e flessibili; i più cattivi, come sa, sono velenosi e la maggior parte delle persone li trova repellenti al solo pensiero. Se educhi un bambino a controllare la sua repulsione e gli stessi ragni in un sol gioco, lo formi a delle capacità superiori, lo rendi molto diverso da un bambino che invece viene spinto ad amare la natura, a proteggere il diverso o a giocare con dei fagioli sul tavolo di cucina.
Va bene… Torniamo alle mafie?
Quando rileggerà i suoi appunti magari capirà meglio i nessi tra famiglia, mafia, infrastrutture invisibili, trappole, predazione, veleno ed eliminazione da parte del più grande, intelligente, forte. Comunque, se Le interessa la Mafia dovrebbe convocare un mafioso…
Per voi noi siamo dei ragni, dunque?
Non ha capito… Voi siete formiche. Nell’esempio che Le ho fatto, per noi, i ragni sono mafie e governi da dirigere. Loro creano le tele per noi.
Ma ha detto che sul percorso di questo vostro Monopoli c’era scritto “asilo, scuola”, ecc.
Suvvia, un po’ di capacità metaforica. Cosa vuole che un bambino possa capire di Parlamenti, Boards, ecc? Era un modo per farci visualizzare dei percorsi… come dire, generali e ricorrenti.
Resto in silenzio un po’ di più di quanto vorrei… Vorrei chiedergli se c’è qualcosa di speciale dietro questa sua intervista concessa proprio a me, ma forse è troppo presto. Conviene procedere con l’intervista, e mentre rifletto, lui continua:
Sono certo che se Le buttassi addosso una grossa tarantola Lei farebbe un gesto inconsulto per toglierselo di dosso, un salto di un paio di metri per restarne lontano e certamente resterebbe sulle punte dei piedi a lungo per non schiacciarlo, non sia mai! E poi sprecherebbe un sacco di tempo per raccontare a qualcuno di questo incidente col ragno, dell’orrore che ha provato, di quanto è stato bravo a non ucciderlo anche se Le sarebbe piaciuto e, soprattutto, che per fortuna il ragno ha fatto perdere le sue tracce – ma certamente adesso è annidato da qualche parte in casa Sua.
(Io ascolto.)
Mafie e governi non sono diversi da chiese e imprese: si muovono su un programma fondamentalmente molto banale. Se a noi serve che uno di questi faccia qualcosa a voi, a noi basta mandarvelo addosso con un soffio di aria calda. A volte questi ragni, per lo più inconsapevolmente al nostro servizio, fanno cose gradite; altre volte fanno cose sgradite. Ma anche se ne perdi uno fai presto a rimpiazzarlo. Non so se segue il discorso.
Si riferisce ai politici?
Anche a intere classi dirigenti e vere e proprie epopee politiche pluridecennali.
Chiaro… Dunque in un certo senso sta ammettendo che in mafie e governi ci sono uomini vostri?
No.
Nel senso che non conferma?
Nel senso che “no, non ci sono”, non nei termini romantici e drammatici che Lei vorrebbe imprimere al suo articolo. Le ho appena spiegato che noi pro-muoviamo le indoli naturali. Ora quella dei ragni è una metafora che nasce dal gioco d’infanzia che Le ho detto, ma sostituisca “ragni” con “uomini o imprese”. In mafie e governi ci sono uomini (e donne, beninteso!) che hanno il loro prevedibile programma, biologico in quanto singoli individui, e collettivo in quanto gruppo di persone, con una presunta comunione di intenti. La mia famiglia osserva e promuove l’indole di tutto ciò. Se vuole, siamo dei facilitatori.
Ma non è un’operazione impossibile? Come è possibile controllare tutto ciò? Dalle mie indagini vien fuori che siete presenti dappertutto: Ghana, Timor Est, perfino a Tonga! Per non parlare di tutto il complesso mondo occidentale: Giappone, Cina, America, Europa!
Noi siamo sempre stati sovra-territoriali e siamo globali già da molti secoli ormai. E poi, Le ho detto: la risposta è nell’indole di specie. Non serve sapere nomi e cognomi, titoli o posizioni. Noi non ci focalizziamo su ciò che è provvisorio. Con la giusta strategia e la più semplice azione possiamo dirigere qualunque entità, grande o piccola che sia, dove vogliamo. E aggiungo che, grosso modo, l’indole di specie non è cambiata nei secoli, dunque che la si operi nel terzo mondo o nel primo mondo, che fossero stati i primi anni del XIX secolo o che sarà la fine del XXI, le modalità di controllo dell’umanità sono sempre agevoli e prevedibili. Ma non bisogna farsi distrarre dai dettagli delle cose.
Mi sembra un discorso diabolico…
(Mi sorride dolcemente.) Non faccia il verginello. Si dia un contegno.
Volevo dire che trovo tutto quanto dice semplicemente disumano.
E si sbaglia. Riscriva la sua tabella di valori. Da millenni noi siamo gli umani. Voi siete i sub-umani e per nostra fortuna siete molto operosi, e anche molto distratti.
Perché ha accettato questa intervista? Ammetto di essere onorato e che fino all’ultimo minuto ho temuto che accadesse qualcosa.
Le ho detto: noi valorizziamo le buone indoli naturali. Come vede non facciamo solo cose cattive, anzi dal nostro punto di vista di cose cattive non ne facciamo proprio. “Quidquid recipitur…”
“ad modum recipientis recipitur…”
Esatto. Lei non è certo il primo giornalista col quale parlo apertamente. Eppure sono sicuro che non ha mai letto niente di serio da parte dei Suoi colleghi più stimabili, vero?
Niente.
Del resto, se Lei chiede un’intervista al Diavolo poi Le tocca parlare del Diavolo, col Diavolo. Ma è davvero pronto a parlare col Diavolo? Capisce la sua lingua? Gli altri capiranno? Io sono qui a parlarLe del nulla, sa?
La Sua famiglia opera effettivamente attraverso dinamiche… sataniche?
Certamente sì, dal vostro punto di vista. Tuttavia a noi appaiono angeliche…
Siete… cattivi?
Assolutamente no, perché siamo a tutt’oggi la linea umana più libera sul pianeta. Poi, sia serio: non esistono i buoni! Anche Lei, sa? Mi sono informato. Non è dichiaratamente ambientalista? E non gira forse in una Volvo Polar dell'84? Negli ultimi sei mesi ha collezionato sette infrazioni “semaforo rosso” e tutte allo stesso incrocio. Si nutre in una maniera tale che certamente non è buona né per se stesso né per gli animali che contribuisce a torturare. Non faccia il gioco dei buoni e dei cattivi con noi, lo faccia con i suoi pari livello.
Si ma…
Quando si è liberi non si può essere cattivi, come intende Lei. Il bambino stacca le ali alle libellule ma non lo fa per cattiveria: il bambino è un diavoletto libero in un paradiso di cui ignora tutto. Lei lo sa che un uomo libero non può davvero fare del male a nessuno, tanto meno a un altro uomo libero?
“Morire liberi o vivere da schiavi”?
Se vuole saltare subito alle conclusioni filosofiche più spicciole… Sì! Esatto. O più precisamente, Le suggerisco di aggiungere “essere disposti a”.
(Faccio lo sguardo di chi non afferra.)
Noi siamo quello che agiscono come vorreste fare voialtri ma siamo gli unici ad avere il coraggio di agire come vogliamo.
Scusi mi sono perso… Il coraggio di fare cosa?
Noi siamo disposti a uccidere, e morire – per agire liberamente. Sa, se ci pensa bene, nella vita si muore poco, e il risultato è che fino al momento della nostra morte, si può e si deve agire liberamente.
Che vuol dire “agire liberamente”?
Noi ci concediamo ciò che è necessario al nostro piano; noi ci concediamo ciò che per voi invece è tabù. Ad esempio – e questo Le piacerà – abbiamo una rete di sicari, che utilizziamo con molta parsimonia. Anche se mi sono sempre chiesto come faccia quella gente a uccidere a sangue freddo e per così pochi soldi…
E come fanno?
Credo che siano dei disturbati.
E lo vede che qualcosa non torna?
Torna, torna. In quanto mandanti, noi abbiamo il mandato collettivo di una famiglia grande e compatta che condivide il progetto, badi bene, nel presente, dal passato remoto fino al futuro di là da venire. Siamo in tanti.
Quindi essere numerosi vi da il permesso di uccidere?
Certo. Essere numerosi e compatti dà il permesso per fare qualunque cosa. Sa perché nel mondo moderno nessuno più è capace di tirare il collo a una gallina? Perché nessuno più ha in casa dieci persone da nutrire. La solitudine vi ha reso deboli. La vita di una gallina vale sì il nutrimento di dieci persone. Voi gente senza famiglia avete rimosso la morte dalle vostre case, avete sanificato le vostre vite ma tutto ciò implica una vita squilibrata, direi anche miserabile.
Cioè?
Schiavitù totale. Fisica, mentale, politica, religiosa, farmacologica…
Ma voi cavalcate l’indolenza degli umani!
Dei sub-umani, vorrà dire. (E fa un’espressione inspiegabilmente rabbiosa…) A proposito. Ho visto il Suo database in cui ha tracciato e nominato tutti i membri della mia famiglia fino al 1600 circa, periodo in cui attraverso quei due matrimoni ben congegnati siamo poi diventati finanziariamente invincibili. Ma Le dico che la nostra famiglia opera da ben 3000 anni. Almeno noi conserviamo traccia fin lì.
Tremila anni? Vuole scherzare?
Lei sverrebbe se potesse vedere i tesori archeologici che custodiamo e altre informazioni sensibili sulla linea temporale di questo pianeta. Ovviamente sebbene noi sentiamo peso e responsabilità per un lignaggio tanto profondo nel tempo, oggi siamo, come dire, direttamente connessi con la nostra famiglia del passato solo fino al livello dei miei bisnonni e abbiamo già chiare tutte le sue possibili ramificazioni per le generazioni più prossime.
Cosa intende dire?
Che già abbiamo idea di come proseguirà la nostra stirpe, conosciamo già i figli, e i figli dei figli che ancora devono essere concepiti.
E come è possibile ciò?
Pianificazione! Noi siamo previdenti, anticipiamo il futuro, lo immaginiamo e costruiamo attivamente all’interno dell’unica matrice naturale e operativa di riferimento, che è quella familiare. Avrà notato che parlo sempre di “noi”. Non è un banale plurale maiestatis e non è che lo usi per riferirmi solo alla famiglia in quanto entità collettiva. Noi usiamo il noi anche tra di noi. L’io da noi è bandito, capisce?
Perché?
Perché io… Perché l’io è come il punto geometrico euclideo. Non ha spessore né reale valore. Per avere qualcosa di tangibile bisogna raggrupparne almeno tre. Io stesso so che sono nato, vivo ed esisto in quanto nodo microscopico e temporaneo di un’impresa che non lascia nulla al caso e, lo posso dire, il cui inizio si perde nella nostra notte dei tempi, e che per precisa politica familiare deve continuare fino alla fine del mondo. Io agisco per conto dei miei avi, di mio padre, dei miei figli e dei nipoti. Mi segue? Io sono qui da Lei ma non sono venuto da solo.
Capisco… Ma questa rinuncia al proprio io non è una cosa un po’ triste?
(Ride di gusto) Ma vuole scherzare? Smettere di dire io per possedere il mondo? Direi di no. A noi non fa né caldo né freddo, ma la vuole una nota antipatica?
La prego.
Ci sono stati più… riordini nella mia famiglia che fuori di essa.
“Riordini”?
Assassini. Il nostro albero genealogico è un
bonsai
di dimensioni epiche. La sua forma è decisa, i suoi rami sono precisamente guidati. Perciò noi sappiamo già che aspetto avrà la nostra famiglia tra due secoli, sappiamo come e perché muoverci e ci sentiamo già rappresentati nel futuro e dunque rappresentanti di esso.
(Annuisco…)
Ma sa che fino a cento anni fa era ancora così quasi in tutte le famiglie, anche in quelle del più umile contado? E sa bene che è ancora è così in alcune famiglie reali, industriali e criminali, vero? Fino a mezzo secolo fa si sentiva di padri che volevano che i figli continuassero la professione di famiglia. O di matrimoni combinati. Ma voi è piaciuto aderire alla narrazione romantica dell’amore e della libertà apparenti.
Sì, è vero. Ma nel vostro caso le implicazioni sono planetarie.
Esatto. Il nostro livello è nettamente superiore a qualunque famiglia di cui conosce il nome nella storia. E anche queste famiglie importanti, se ancora esistono, si stanno disgregando in preda agli stessi attacchi culturali che hanno eroso le famiglie più modeste, del popolo.
E invece noialtri, poveri sub-umani…
Voialtri vivete nella gabbia temporale di un presente senza memoria e senza reali piani per il futuro. Siete erosi dai morsi dell’ego. E il futuro stende i suoi piani sul vostro presente…
Come abbiamo fatto a ridurci così…
Perbacco.
Noi vi abbiamo ridotto così!
Questo è il frutto del nostro lavoro e abbiamo cominciato da molto indietro nel tempo. Il primo obbiettivo della nostra famiglia è stato indebolire, svuotare, annientare le altre famiglie, a ogni livello. La famiglia è il modulo più potente che possa esistere, perché accomuna la discendenza genetica con la condivisione di un piano strategico nel tempo. Abbiamo calcolato che chi non ha famiglia può agire e riscuotere anche enormi successi ma solo nel ristretto ambito di quattordici anni, in media, per esistenza singola. Può arricchirsi, godere quanto vuole, ma che abbia o meno figli, non assicura continuità al suo progetto, e ciò per noi non è una minaccia, per intenderci. Invece più ricco è un nostro concorrente e più diventa una risorsa per noi. Basta un’onda inaspettata per capovolgere la loro barchetta.
Ma se questa persona ha genitori o figli, tecnicamente possiamo dire che ha una famiglia?
(Sorride genuinamente.) No. Non secondo la nostra accezione di famiglia. Ma c’è sempre il rischio che in una famiglia, come dire, scapestrata, si inneschi la scintilla che generi una famiglia potente con radici nel passato e intenzioni nel futuro prossimo. Sebbene possiamo stare certi che ciò non accadrà più eccoLe spiegato il motivo per cui abbiamo smantellato o inglobato le ultime famiglie che per noi rappresentavano un rischio, e abbiamo obliterato il concetto di famiglia nei livelli più bassi delle società avanzate.
Attraverso la comunicazione?
Nel passato attraverso l’induzione alla guerra. Mentre guadagnavamo con i prestiti finanziari per gli armamenti, mandavamo a morire milioni di uomini e così facendo abbiamo ciclicamente amputato altrettanti milioni di famiglie. Oggigiorno e nel caso delle famiglie popolari, sterilizziamo le famiglie certamente attraverso la comunicazione; attraverso l’inquinamento delle religioni, dei messaggi consumistici; spingendo per il femminismo tra i maschi e la mascolinità tra le donne; inculcando la tolleranza, il buonismo, l’idea di una vita che nell’illusione del consumo libero e auto-gratificante si dispieghi in maniera quanto più casuale e dopante, con sempre meno pianificazione e sguardo nel futuro; con sempre maggiore importanza per sé stessi e il lavoro, a spese dell’unico assetto ancestrale che invece avrebbe fatto di voi dei veri umani.
Ma io registro che negli ultimi anni c’è un ritorno di fiamma per il tribalismo, per la Natura, voglio dire, mi sembra di vedere correnti che vadano contro il vostro progetto.
Si rassegni. Parte tutto da noi. Sono campagne di sfiato, mirate.
Ma è assurdo! Come fate?
Non lo sa che spesso nei dolci si mette del sale? E nei rustici si mette dello zucchero? (E socchiude gli occhi.) Se vuole Le mando un documento con tutte le agenzie di comunicazione ingaggiate da noi e i progetti ai quali stanno lavorando per la nostra agenda. Il problema è che esse stesse non sanno di lavorare per noi ed effettivamente lavorano nella massima libertà espressiva. Loro non sono consci dell’agenda.
L'agenda contiene le idee.
Ne è superiore.
Ma appunto, come fate?
Le ho detto. L’aria calda dirige i ragni e i colori sgargianti richiamano l’ape vanitosa. Ciascuno ha un suo programma che noi individuiamo e mettiamo a frutto nella massima correttezza. In quanto committenti noi assegniamo una commessa a una rosa di studi di comunicazione e poi accettiamo quelle che, in tutta naturalezza espressiva, incontrano i nessi della nostra agenda. In genere tutte. A noi serve sia il sale che lo zucchero.
Quindi se io pubblicassi questa lista di agenzie verrei preso per pazzo?
Potrebbe prendersi qualche genuina denuncia per diffamazione. Come reagirebbe se qualcuno pubblicasse un articolo che la pone, agli occhi dei suoi lettori, a libro paga della nostra famiglia quando è perfino lampante che Lei esprime concetti opposti ai suoi ipotetici committenti?
Uhm, sono sempre scioccato. Ma anche sorpreso dalla piega che ha preso questa intervista. Lei mi sta aprendo gli occhi su cose che avevo sempre e solo inquadrato in termini di connessioni finanziare, segreti corporativi, di sospetti… E mi sembra che Lei mi stia imbeccando anche con una discreta gentilezza. Quasi non mi spiego… Io ero pronto a un’intervista di fuoco, in cui Lei negava e io cercavo di incastrarla con i dati in mio possesso.
Glielo ripeto. Noi promuoviamo le indoli naturali. E lei con "i dati" non ci fa niente. Noi con l’indole facciamo tutto.
Quindi ricapitolando, l’importanza della Sua famiglia è nell’importanza che date alla famiglia? Qualcosa del genere?
(Sorride ancora di gusto.) Sì, qualcosa del genere. Anzi, la aiuto a ricapitolare:
1) La famiglia in quanto unico modulo realmente funzionale per l’impresa umana sul pianeta
2) Il rifiuto della paura della morte
3) Il dissolvimento dell’ego per ottenere un’azione anticonformista e libera che si attui su un piano temporale e collettivo che vada almeno 100 anni indietro nel passato e 100 anni avanti nel futuro
4) Un sincero altruismo che si occupi di valorizzare le indoli naturali che si incontrino sul percorso.
(Cerco di rivedere velocemente in mente i punti di questa scaletta e appuntare qualcosa sul blocco. Ma lui incalza.)
Ormai nessuno è capace di agire instillando nelle proprie azioni il volere dei propri antenati e l’anima di chi ancora deve nascere. Su ciò sono certo di affermare che non abbiamo rivali nel mondo civilizzato, né tra le più grandi famiglie ancora in auge, tantomeno tra le famiglie di sub-umani. Anche ricordando il nome di un proprio trisavolo o conservando qualche foto in bianco e nero, l’esercizio spirituale proprio della nostra famiglia nel conoscere i nostri morti e il loro piano, di attuarlo come se fossero vivi e presenti ancora oggi tra noi è appunto esclusivo della nostra famiglia.
Ma nel mondo vi sono ancora una quarantina di monarchie!
Quelle sono una nostra brutta copia, espongono castelli, ritratti, sale, ma stanno assottigliando la visione ampia che una volta era comune anche a loro. Come voialtri sub-umani, anche loro non hanno più nessun contatto con l’animo degli antenati e hanno seri problemi con le discendenze. Voi dei vostri antenati condividete forse solo qualche tic o qualche tratto fisionomico, spesso senza neanche saperlo. Con l’avvento del Web avete avuto tutti un interesse per i vostri alberi genealogici ed è stato bello vedervi giocare. Ma il vostro interesse si è esaurito con l’ottenimento di un grafico e pochi nomi. I vostri alberi sono rametti secchi, piantine di plastica. Ciò che muove la nostra famiglia è una vera e propria linfa familiare, radici profonde, rami estesi e il miglior design arboreo possibile.
Ma come è possibile vivere spalmati avanti e indietro di duecento anni? – gli domando.
Immagini una tipica timeline orizzontale. Ora visualizzi il punto presente. Voi imprimete al momento presente e in verticale la stessa pressione che noi poniamo invece orizzontalmente. La fantasia che contraddistingue voialtri nell’immaginare egoisticamente picchi e abissi della vostra esistenza egotica è il vostro stesso punto debole. Voi usate tutte le vostre energie mentali, spirituali, fisiche e sessuali nell’incanto del momento attuale. Non vi è alcuna dote invidiabile nel fare ciò.
Vi ritenete una sorta di divinità?
Oh, no. Noi siamo solo “la Famiglia”. Noi siamo la dimenticata natura umana. Ma certamente qualcuno ci percepisce come dei semidei.
A quanto ammonta il vostro patrimonio finanziario?
Resterebbe deluso se lo sapesse con precisione. Le posso dire che siamo stati la famiglia più ricca del pianeta fino al 1901, poi abbiamo donato un’immensità di beni facendo dell’influenza la nostra valuta di riferimento. A che serve ammucchiare, contare e calcolare se il pianeta brulicante è tutto tuo?
È davvero convinto di ciò che dice? Comincio a percepire una sorta di esagerazione in ciò che dice…
(Socchiude gli occhi e accenna un sorriso.) È il potere delle parole, che è anche dalla nostra parte. Le parole sono frammenti di specchio rotto che le restituiscono un’immagine balbuziente, insopportabile della realtà.
Sono un giornalista, non ci provi con me. Conosco bene il potere delle parole.
Questo è il problema. Lei ne è intossicato. E fortemente dipendente da esse. La realtà è preminente, e non avrebbe bisogno di semplificazioni. Il dono della parola è abusato da tutti voi. Ha in mente quella immagine tipica di un re e una regina che pranzano a un tavolo lunghissimo senza proferir parola, e in mezzo un candelabro? Quella è un’immagine fedele di come noi intendiamo la comunicazione. Si parli il meno possibile. Ma voi giornalisti siete spasmodicamente a caccia della Verità con la V maiuscola, e nel fare ciò vi divertite a generare opinioni, e solleticarne altre, a frammentare sempre più oggetti reali in discorsi vacui che per noi non dovrebbero aver luogo mai… Ma è la vostra indole e noi la rispettiamo e promuoviamo. Allo stesso modo facciamo da mecenati agli artisti, incoraggiamo la scienza, appoggiamo tutte le religioni e da molti anni finanziamo ciecamente tutte le attività web che scavino abissi virtuali sempre più profondi nel presente di tutti. Noi siamo dei facilitatori, se vuole.
(Qui c’è una lunga pausa… Lui ha smesso di parlare. Io non ho domande. Mi sento effettivamente disarcionato. E stanco. Poi, con sguardo sadico, sbotta.)
Non mi domanda se abbiamo un piano per il de-popolamento? Se abbiamo ancora oggi interessi nella vendita di armamenti?
No…
Bravo. Infatti, non abbiamo più interessi così specifici. Trattiamo tutto ma a noi interessa solo una cosa. Il vantaggio.
Il vantaggio su chi?
Su "cosa", vorrà dire.
(Passano tre lunghi secondi. Lo interrogo con lo sguardo.)
Il vantaggio sul pianeta, il vantaggio nel tempo. Vede, di fatto il mondo è caotico e incontrollabile. Nessuno può davvero cavalcare la bestia.
E dunque dov’è il vostro vantaggio?
Noi aizziamo la bestia.
Alessandro Wm Mavilio
Orientalista, scrittore, ricercatore indipendente. Alessandro Mavilio ha insegnato all’Università Industriale di Kyoto.
Nell’àmbito del progetto "Taoist Movies" è stato autore di cortometraggi sperimentali girati in Giappone.
Per "Semantix.media" cura l'ideazione, la creazione e il mantenimento di numerose strutture informatiche.
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